Hortus Incomptus | alberto
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L’oleandro

L’oleandro è per me pianta ambivalente. Lo sto rivalutando, dopo averlo tanto snobbato. Ambivalente, per me, lo è per molti motivi. L’ho visto spesso confinato in vaso: sofferente, ischeletrito, con le branche spanciate e divaricate a casaccio, e mi è stato detto che non è rustico; lo vedo però anche in mille giardini e mi pare rusticissimo, qui da noi in Italia settentrionale, col gelo che al più gli strina questo o quel ciuffo di foglie. Ho letto che è pianta d’acqua, come le idrangee, e che vegeta bene sui greti dei fiumi; eppure lo vedo negletto e di certo non irrigato in così tanti angoli di parchi e giardini, per non dire degli spartitraffico in autostrada o al mare, che mi viene il dubbio che ami invece il secco. C’è chi, e così facevo anch’io, lo snobba come “pianta delle pompe di benzina”: tra questi Robin Lane Fox, di cui sto leggendo un florilegio di articoli; e c’è chi invece, come Olivier Filippi, ne tiene diverse cultivar in catalogo e ne intesse le lodi nei suoi libri. A proposito, molte di queste sono creazioni d’ibridatori italiani dei tempi d’oro.

Che farsene di un oleandro in giardino? Nonna mi terrorizzava a tal punto sulla sua velenosità che a casa sua neppure ci passavo sotto, all’oleandro. In realtà c’è di peggio, in giardino, in termini di pericolosità. E poi, chi si metterebbe a rosicchiare le sette foglie che – così pare – sarebbero sufficienti a stendere un uomo adulto? Immagino che il sapore sia amaro e ripugnante, considerando anche il latice che geme dai fusti quando se ne spicca una foglia. In realtà, un oleandro in giardino può risolvere molte situazioni. Be’, ovviamente se non lo si sacrifica in portamenti innaturali come usava fare a suo tempo: strozzato ad alberello entro il fil di ferro, o legato a mo’ di salame in più punti perché non si apra. No: bisogna lasciarlo libero di pollonare dalla base e di formare un bel cespuglio tondeggiante e solenne. Col bel verde cupo delle foglie lucide e lanceolate forma una quinta scura, e i fiori – che magari per chi li vede da sempre tutte le estati in ogni dove risultano banali – hanno una raffinata semplicità. Anche i colori sono i più vari, ma sempre in monocromia. Ci sono i crema, i salmone, gli avorio, i rosa carne. Il profumo, se c’è, lo trovo un po’ venefico, di mandorla amara e cianuro: pare si spanda sottile e più intenso in caso di siccità e calura.

D’estate avere qualche oleandro in giardino garantisce fioriture anche quando il resto è un po’ spossato dalla canicola, con le perenni magari esaurite o quasi in “dormienza”, e ogni stelo ingiallito che reclama a gran voce la pioggia. Infatti mi dico spesso in cuor mio che, se mai avrò il grande giardino che sogno, non dovrò dimenticare oleandri, ibischi e lillà delle Indie, per avere la certezza di fioriture “facili” e generose anche in tempi di caldo quasi disumano.

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L’incuria fa miracoli

L’eccesso d’amore soffoca. I figli, ma anche le piante. Quante ne ho perse! E ho cominciato presto. Sarò stato in quinta elementare; avevo un Ficus benjamina in camera da letto e una dieffenbachia che d’estate mettevo sul davanzale con le imposte a libro perché il sole non ne bruciasse le foglie. Ebbene, fu allora che la nonna mi decantò le mirabili proprietà del sangue di bue. Non l’avesse mai fatto! Andai all’emporio di cibo per animali e lo comprai. Del sangue aveva tutta la consistenza e il colore, ma chissà quanto ce n’era dentro davvero… In ogni caso, iniziai a diluirne un po’ nell’acqua d’innaffio. Poi ne misi un po’ di più. Alla fine mi dissi che se ne avessi versato mezzo tappino puro direttamente sul terriccio avrei magari ottenuto chissà quante e quali foglie lussureggianti. Così feci, e la pianta marcì di lì a poche ore. Anche il bengiamino andò al creatore più presto che in fretta. Lì la nonna non c’entrava. Avevo letto sull’enciclopedia Curcio di mamma “Piante e fiori mese per mese” (curatela di Gigliola Magrini) che avrebbe tratto giovamento da regolari nebulizzazioni sulla chioma. Era un’operazione macchinosa, che prevedeva di tappezzare il muro e lo specchio di carta di giornale, e la base intorno al vaso di pezze, e di irrorare con lo spruzzino di acqua che non mi pare, tra l’altro, di aver lasciato decantare come avrei dovuto. Fatto sta che il povero esemplare non ha gradito. In realtà non so quale sia stata la causa, ma è perito pure lui.

La strada del giardiniere è disseminata di vittime… Tipico il caso delle piante affogate d’acqua, che marciscono o muoiono asfissiate. Ultimamente mi succede spesso di dover decidere se innaffiare sotto la chioma, per evitare le malattie fungine, o irrorare per bene sulle foglie, pagina inferiore soprattutto, per tenere a bada il ragnetto rosso, vera peste qui da me in estate. Di solito alterno, col risultato che ho sia le une che l’altro. Il danno più grosso l’ho fatto alle ortensie, che purtroppo sto in parte eliminando. Hanno preso l’antracnosi e ormai non c’è rame che tenga: alcune sono spacciate. Anche qui, tutto per troppo amore. A casa dei miei invece c’è una fila di ortensie neglette quant’altri mai. Sono state ottenute da talee di fortuna, infilate alla bell’e meglio a mo’ di stecchini lungo il confine. Il terreno non è acido né è stato lavorato o concimato mai. Mamma non le innaffia se non in luglio-agosto se proprio sta per divampare un incendio da quanto caldo fa. Ma lo fa con poca acqua, perché quella è preziosa e le serve per l’orto. Ebbene, proprio l’altro giorno son passato da loro ed ecco che all’ingresso mi si sono parate davanti queste piante maestose, floride, con infiorescenze della misura di mazzi di fiori. A vederle diresti che c’è un giardiniere che le pota, le scerba, le zappetta, le innaffia, le concima, ci dà il rinverdente e i lupini. Invece no. Nulla di tutto questo. Puro e semplice abbandono. L’incuria fa miracoli.

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Sirfidi, gatti, tlaspi

Oggi ho approfittato del sole per rassettare il giardino. C’erano foglie sparse da raccattare, piante freddolose da ricoverare (mi prendo per tempo e infatti lascio socchiusa la porta della serra, ché freddo ancora non fa), plantule di verbasco e digitale da rinvasare.

Ho dovuto anche rimediare – in parte – ai danni dei nostri tre nuovi micetti, con mamma al séguito, che notte e giorno si scatenano e producono in folli acrobazie sui miei preziosissimi vasi, spezzando e scalzando qualunque cosa. La catasta di legna è mezza crollata; i giovani verbaschi sono stati triturati ad artigliate come prezzemolo alla mezzaluna; non si contano i vasi rovesciati o rimasti orfani dei loro ospiti vegetali, che – lanciati in orbita – ora giacciono esanimi a terra, chissà dove; che dire poi delle aiuole che avevo diserbato a mano a fine estate: sembrano un campo di battaglia, tutto dossi e crateri.

Per fortuna ci sono, immerse nel verde tuttora smeraldino di quest’autunno che sembra estate, tantissime fioriture: crisantemi sopra ogni cosa, sgargianti e perfetti, e poi tutto un trapasso di fioriture tardive e incipienti (ultime gazanie, dalie, abelie, ipomee e la filigrana profumata di miele; prime viole, tlaspi, stellarie – maledette! –; c’è anche qualche sparuta rosa e giuseppina intenta a rifiorire; infine, un ramettino di Phlox subulata ha proprio sbagliato stagione e si produce in pochi timidi fiorellini bianchi, quasi a saggiare gli elementi…). Qua e là svolazzano sirfidi e api, mentre le turpissime cimici, che quest’anno ci hanno colonizzato come un’invasione aliena, s’infilano in ogni interstizio. Ho visto persino una coccinella, quasi un’epifania.

Dimentico qualcosa? Sì, il foliage, come usa dire da qualche anno, con parola inglese pronunciata alla francese (d’altronde da lì viene, anche se la forma feuillage, una volta entrata in inglese, si è ibridata coi derivati di folium). Da me i rossi più belli sono quelli delle ortensie e del pero corvino; non ho infatti sommacchi, quelli sono sui Colli intorno a casa mia, e la vite americana che ho in vaso si è già sfogliata.

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Giardinaggio e no

Un bel libro di Umberto Pasti cerca di discriminare ciò che è giardino da ciò che giardino non è (Giardini e no). Anche col giardinaggio si può tentare un’analoga cernita. Sono sicuro, per esempio, che non è giardinaggio quello che fa un mio vicino, il quale ogni tre giorni s’incaponisce su un fazzolettino di prato verde (in realtà giallognolo) antistante casa sua che a malapena si lascia percorrere in un senso e nell’altro dalla falciatrice, che sarà a farla grande un quarto o quinto della lunghezza del lato. Passa e ripassa, passa e ripassa. Non deve restare filo d’erba a svettare sopra il pelo della superficie. Una volta riposto il macchinario infernale, si passa a rifinire i bordi decapitando a forbiciate qualsiasi fogliolina che osi tralignare oltre il suo. Di giardinaggio, qui, non c’è neppure l’ombra. C’è invece caparbia ostilità verso la natura, intesa come forza con cui si deve ingaggiare una lotta volta a rintuzzarne l’esuberanza, a rimetterla nei ranghi. Avere a tal punto in odio la natura è agli antipodi del giardinaggio. Che è – sì – intervento umano sulla natura, ma non rancoroso e guerrafondaio: al più, fermo o dirigista.

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Tulipani in vaso

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Per ottenere quest’effetto occorre piantare i bulbi di tulipano su due strati. Si riempie un bel vaso capiente di comune terra da orto, senza letami o terricciati. Si dispongono i bulbi molto vicini su un primo letto a venti centimetri dal bordo; poi si aggiungono dieci centimetri di terreno e si adagiano i rimanenti bulbi, sempre a poca distanza l’uno dall’altro, a formare un secondo livello; infine, si procede a colmare la terracotta lasciando solo due dita dall’orlo. Si può concimare con un po’ di farina d’ossa, mischiandola al sostrato. In primavera, durante la fioritura, si possono sostenere i bulbi con fertilizzante liquido per bulbose oppure con un concime organico in polvere ricco di potassio (in tal caso è bene spargerlo appena spuntano le foglie). S’innaffia solo se non piove per parecchio tempo. Terminata la fioritura, le foglie vanno lasciate seccare del tutto, continuando a dare acqua senza esagerare. Tolto il fogliame, i vasi andrebbero tenuti asciutti fino all’autunno. Unico caveat: una volta piantumati, i vasi – già pesanti di loro – diventano di piombo; unica soluzione, se si è stati tanto imprudenti, lasciarli là dove sono stati allestiti, nel mio caso dai miei, che ora si godono il risultato che si vede in foto.

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Tulipani: l’insuperabile grazia della semplicità

Da bambino mi son preso un’infatuazione potente per i tulipani. Ricordo l’emporio vicino a casa, che sentiva di mangimi, granaglie e pastoncino, dove in cambio della mia magra paghetta settimanale potevo avere tre-quattro patatine cuoriformi, protette da una tunica secca secca che ti si sfaldava tra le dita, con una promessa di germoglio in cima, a forma di virgola verde pallido. Ci andavo a marzo, ignorando che la stagione più idonea per piantare è l’autunno. Nella bottega non c’era molta scelta di forme o colori, e all’epoca – avrò avuto nove anni – mi piacevano le tinte allegre e sgargianti, perciò me ne tornavo a casa con bulbi che avrebbero portato corolle rosso scarlatto e giallo intenso. L’anno successivo s’imbastardivano e i fiori nuovi erano gialli con striature e arabeschi rossi, o viceversa.

Adesso che ho una casa e un giardino miei, di tulipani così non ne ho (né li voglio, ché ora prediligo le tinte pastello). Eppure, la passione per questi fiori semplici e meravigliosi rimane, magari sopita o messa un po’ alle strette da tanti altri amori vegetali concorrenti. L’autunno scorso, quasi a dicembre, ho interrato, con molta pomice, sabbia e brecciolino, dei bei bulbi di Tulipa saxatilis ‘Lilac Wonder’ che Valeria, amica e provetta giardiniera, si era procurata a una svendita di fine stagione presso l’ormai leggendario “Floriana Bulbose”. Che dire? Il risultato è commovente e rischia di rinfocolare quell’antica passione, portando a prossimi acquisti compulsivi e – ahimè – scriteriati, vista la carenza endemica di spazio vitale per le piante che affligge il mio fazzoletto. I ‘Lilac Wonder’ sono proprio belli, nella loro leggiadra semplicità, con quei tepali appuntiti e quell’areola giallo zafferano che pare un tuorlo d’uovo.

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… rings umher eine unaussprechliche Schönheit der Natur.

Come il Werther tutto commozione e palpiti del cuore anch’io vorrei zum Marienkäfer werden per perdermi nella bellezza sorgiva della primavera, diese Jahrszeit der Jugend… I prati sono tappeti persiani di fiori, tutti pennellati del bianco delle pratoline, del celeste delle veroniche, del giallo dei tarassachi. Verrebbe voglia di rotolarcisi, incuranti della terra, dell’allergia, degl’insetti.

lobularia:alisso e spontanee

giungla

fratino

speronella

narcisi bianchi

violacciocche

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Narcisi ed ellebori

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Il giardino è funestato da marciumi e asfissie, con questa pioggia petulante. Ci sono zone che non perlustro da novembre, ché non hanno mai fatto in tempo a sgrondare le acque soverchie. Anche là dove ci si può avventurare – i viottoli coperti di ghiaia, le aiuole raggiungibili dal bordo in cemento –, se si diserba a mano ci si ritrovano le dita impiastricciate di argilla, che forma come una pasta untuosa sotto e intorno alle unghie. Diverse infiorescenze sono sfigurate dalla muffa grigia; le bocche di leone e le violacciocche mi rivolgono moncherini acefali che fanno tanto gabinetto degli orrori vegetali. Anche le rosette basali di varie perenni sono fradicie e marce. D’improvviso, però, mi attira una macchia – spargola, a dire il vero – di allegri narcisi. Sono un po’ incongrui, quasi un ossimoro, in tutto questo grigiume. Sono di un giallo abbacinante, caldo, saturo. Mi sembrano un manipolo impavido di araldi che annunciano la primavera a dispetto di tutto. Hanno persino un che di sfrontato. Mi pare un buon segno: prima o poi la stagione virerà al bello.

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Poche ma preziose le fioriture vernine

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Si protrae indefessa la fioritura di bocche di leone, calendole, rose paesaggistiche. Ci sono poi i fiori vernini di poche, timide piante: iberidi, ellebori, viole e violette. Sono belle anche le foglie glassate dal gelo, le trame dei rami con le loro cromie e tessiture, parchi e giardini alfine sgombri di fronde, che l’occhio può traguardare e la mente misurare. Eppure, cerco solo fiori con lo sguardo: tutto il resto ha una sua poesia da giardino delle nevi – non si può negare – e però non mi entusiasma. Attendo il risveglio e il disgelo con trepidazione, ma sono lontani, ancora.

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Fioriture novembrine

iberissemperflorens

Tlaspi o tlaspo, nome che indica anche altre crucifere, sia in italiano che in greco. Questo è il tlaspi d’inverno, piccolo arbusto spontaneo in certe zone d’Italia, su rupi assolate e sassose, ma coltivato da tempo immemore nei giardini della nonna, in vaso, per esibirne la fioritura in pieno inverno. Fiorisce, infatti, tra novembre e aprile. Mi piace l’asimmetria dei petali, due dei quali si allungano a linguetta verso l’esterno. Botanicamente, il tlaspi d’inverno è un tipo d’iberide: Iberis semperflorens. Il genere comprende anche Iberis umbellata, che fiorisce in primavera-estate e si risemina da sé con facilità; Iberis gibraltarica, endemica nella zona evocata dal nome specifico; Iberis sempervirens, a volte confusa con la semperflorens: la prima forma un cuscinetto sempreverde che reca in primavera candide infiorescenze che le hanno guadagnato l’appellativo di “fior di neve”, la seconda si distingue, appunto, per l’andare a fiore in un periodo un po’ sguarnito e disadorno. Il tlaspi d’inverno predilige un sostrato calcareo e non teme la siccità. Si riproduce senza fallo (o quasi) per taleaggio. Non è esente da pecche: tende col tempo ad assumere un aspetto scarmigliato e sparuto, per cui conviene rinnovare le piante con regolarità.

crisantemi

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