Hortus Incomptus | Estate
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L’oleandro

L’oleandro è per me pianta ambivalente. Lo sto rivalutando, dopo averlo tanto snobbato. Ambivalente, per me, lo è per molti motivi. L’ho visto spesso confinato in vaso: sofferente, ischeletrito, con le branche spanciate e divaricate a casaccio, e mi è stato detto che non è rustico; lo vedo però anche in mille giardini e mi pare rusticissimo, qui da noi in Italia settentrionale, col gelo che al più gli strina questo o quel ciuffo di foglie. Ho letto che è pianta d’acqua, come le idrangee, e che vegeta bene sui greti dei fiumi; eppure lo vedo negletto e di certo non irrigato in così tanti angoli di parchi e giardini, per non dire degli spartitraffico in autostrada o al mare, che mi viene il dubbio che ami invece il secco. C’è chi, e così facevo anch’io, lo snobba come “pianta delle pompe di benzina”: tra questi Robin Lane Fox, di cui sto leggendo un florilegio di articoli; e c’è chi invece, come Olivier Filippi, ne tiene diverse cultivar in catalogo e ne intesse le lodi nei suoi libri. A proposito, molte di queste sono creazioni d’ibridatori italiani dei tempi d’oro.

Che farsene di un oleandro in giardino? Nonna mi terrorizzava a tal punto sulla sua velenosità che a casa sua neppure ci passavo sotto, all’oleandro. In realtà c’è di peggio, in giardino, in termini di pericolosità. E poi, chi si metterebbe a rosicchiare le sette foglie che – così pare – sarebbero sufficienti a stendere un uomo adulto? Immagino che il sapore sia amaro e ripugnante, considerando anche il latice che geme dai fusti quando se ne spicca una foglia. In realtà, un oleandro in giardino può risolvere molte situazioni. Be’, ovviamente se non lo si sacrifica in portamenti innaturali come usava fare a suo tempo: strozzato ad alberello entro il fil di ferro, o legato a mo’ di salame in più punti perché non si apra. No: bisogna lasciarlo libero di pollonare dalla base e di formare un bel cespuglio tondeggiante e solenne. Col bel verde cupo delle foglie lucide e lanceolate forma una quinta scura, e i fiori – che magari per chi li vede da sempre tutte le estati in ogni dove risultano banali – hanno una raffinata semplicità. Anche i colori sono i più vari, ma sempre in monocromia. Ci sono i crema, i salmone, gli avorio, i rosa carne. Il profumo, se c’è, lo trovo un po’ venefico, di mandorla amara e cianuro: pare si spanda sottile e più intenso in caso di siccità e calura.

D’estate avere qualche oleandro in giardino garantisce fioriture anche quando il resto è un po’ spossato dalla canicola, con le perenni magari esaurite o quasi in “dormienza”, e ogni stelo ingiallito che reclama a gran voce la pioggia. Infatti mi dico spesso in cuor mio che, se mai avrò il grande giardino che sogno, non dovrò dimenticare oleandri, ibischi e lillà delle Indie, per avere la certezza di fioriture “facili” e generose anche in tempi di caldo quasi disumano.

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L’incuria fa miracoli

L’eccesso d’amore soffoca. I figli, ma anche le piante. Quante ne ho perse! E ho cominciato presto. Sarò stato in quinta elementare; avevo un Ficus benjamina in camera da letto e una dieffenbachia che d’estate mettevo sul davanzale con le imposte a libro perché il sole non ne bruciasse le foglie. Ebbene, fu allora che la nonna mi decantò le mirabili proprietà del sangue di bue. Non l’avesse mai fatto! Andai all’emporio di cibo per animali e lo comprai. Del sangue aveva tutta la consistenza e il colore, ma chissà quanto ce n’era dentro davvero… In ogni caso, iniziai a diluirne un po’ nell’acqua d’innaffio. Poi ne misi un po’ di più. Alla fine mi dissi che se ne avessi versato mezzo tappino puro direttamente sul terriccio avrei magari ottenuto chissà quante e quali foglie lussureggianti. Così feci, e la pianta marcì di lì a poche ore. Anche il bengiamino andò al creatore più presto che in fretta. Lì la nonna non c’entrava. Avevo letto sull’enciclopedia Curcio di mamma “Piante e fiori mese per mese” (curatela di Gigliola Magrini) che avrebbe tratto giovamento da regolari nebulizzazioni sulla chioma. Era un’operazione macchinosa, che prevedeva di tappezzare il muro e lo specchio di carta di giornale, e la base intorno al vaso di pezze, e di irrorare con lo spruzzino di acqua che non mi pare, tra l’altro, di aver lasciato decantare come avrei dovuto. Fatto sta che il povero esemplare non ha gradito. In realtà non so quale sia stata la causa, ma è perito pure lui.

La strada del giardiniere è disseminata di vittime… Tipico il caso delle piante affogate d’acqua, che marciscono o muoiono asfissiate. Ultimamente mi succede spesso di dover decidere se innaffiare sotto la chioma, per evitare le malattie fungine, o irrorare per bene sulle foglie, pagina inferiore soprattutto, per tenere a bada il ragnetto rosso, vera peste qui da me in estate. Di solito alterno, col risultato che ho sia le une che l’altro. Il danno più grosso l’ho fatto alle ortensie, che purtroppo sto in parte eliminando. Hanno preso l’antracnosi e ormai non c’è rame che tenga: alcune sono spacciate. Anche qui, tutto per troppo amore. A casa dei miei invece c’è una fila di ortensie neglette quant’altri mai. Sono state ottenute da talee di fortuna, infilate alla bell’e meglio a mo’ di stecchini lungo il confine. Il terreno non è acido né è stato lavorato o concimato mai. Mamma non le innaffia se non in luglio-agosto se proprio sta per divampare un incendio da quanto caldo fa. Ma lo fa con poca acqua, perché quella è preziosa e le serve per l’orto. Ebbene, proprio l’altro giorno son passato da loro ed ecco che all’ingresso mi si sono parate davanti queste piante maestose, floride, con infiorescenze della misura di mazzi di fiori. A vederle diresti che c’è un giardiniere che le pota, le scerba, le zappetta, le innaffia, le concima, ci dà il rinverdente e i lupini. Invece no. Nulla di tutto questo. Puro e semplice abbandono. L’incuria fa miracoli.

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Giardinaggio e no

Un bel libro di Umberto Pasti cerca di discriminare ciò che è giardino da ciò che giardino non è (Giardini e no). Anche col giardinaggio si può tentare un’analoga cernita. Sono sicuro, per esempio, che non è giardinaggio quello che fa un mio vicino, il quale ogni tre giorni s’incaponisce su un fazzolettino di prato verde (in realtà giallognolo) antistante casa sua che a malapena si lascia percorrere in un senso e nell’altro dalla falciatrice, che sarà a farla grande un quarto o quinto della lunghezza del lato. Passa e ripassa, passa e ripassa. Non deve restare filo d’erba a svettare sopra il pelo della superficie. Una volta riposto il macchinario infernale, si passa a rifinire i bordi decapitando a forbiciate qualsiasi fogliolina che osi tralignare oltre il suo. Di giardinaggio, qui, non c’è neppure l’ombra. C’è invece caparbia ostilità verso la natura, intesa come forza con cui si deve ingaggiare una lotta volta a rintuzzarne l’esuberanza, a rimetterla nei ranghi. Avere a tal punto in odio la natura è agli antipodi del giardinaggio. Che è – sì – intervento umano sulla natura, ma non rancoroso e guerrafondaio: al più, fermo o dirigista.

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Idiosincrasie e aspidistre

In fatto di piante, come in qualsiasi altro àmbito umano, esistono simpatie e antipatie. Talvolta sono blande, talaltra radicali. Spesso, oltre a essere viscerale, una particolare avversione è anche immotivata. Un capriccio idiosincratico. Eppure, tutti cerchiamo di giustificare le nostre inclinazioni e repulsioni, di razionalizzarle: è normale. Succede anche ai grandi esperti di giardinaggio: non dicono solo “la tal pianta per me è orribile” o “adoro questa pianta e basta”, ma argomentano, esemplificano, illustrano.

In fatto d’idiosincrasie, io stesso non mi sottraggo alla tendenza generale. Ma mi pare di trovarmi in buona compagnia. Ricordo (e mentre scrivo vado un attimo a recuperare la Garzantina) che il grande Pizzetti dà alle povere cosmee una stroncatura implacabile, seppur ben ragionata e circostanziata.

Ecco qualche stralcio della requisitoria (il maschile è dovuto al termine “cosmos”, preferito dal Pizzetti a “cosmea”): arruffatissimo sovrano degli ortiun miscuglio di colori spesso bruttodue fiori […] da portare in chiesa o al camposantoil suo fogliame […] non è dei più belliè una di quelle piante che il primo temporale massacrabasta una tempesta e della pianta non rimane che un ammasso di verde calpestato, di pallidi rovesci di foglie, di capolini mutilati […].

Lo bello stilo del Pizzetti è tanto cristallino e raffinato che non gli si può che perdonare questa critica sferzante, quantunque le cosmee, allegre e inoffensive, meriterebbero una degna difesa, sia pure d’ufficio (che però vi risparmio). Sui singoli punti enucleati dal pubblico ministero non c’è granché da obiettare, ma sembra che il primo motore sia un’avversione di fondo, epidermica e irrazionale, per la singola pianta, al punto che forse viene inclusa solo per dovere di completezza enciclopedica.

Mi sono da poco imbattuto anche in un esempio d’Oltralpe. Il fidatissimo, intramontabile, immarcescibile dottor Hessayon, col suo taglio pragmatico e stile asciutto, boccia senza appello un grande classico come l’ibisco (quello più facile, il siriaco). Nel manualetto The Flowering Shrub Expert, leggo che it has a number of fussy needs and one or two drawbacks. The soil must be free-draining and both full sun and protection from cold winds are essential. In chiusa di paragrafo pare quasi di sentire il dotto sospirare di commiserazione: Do have patience – it takes some time to establish. Insomma, succinto e tranchant. Chissà se tutta questa fussiness è vera almeno in clima britannico… a me non risulta, anzi: mi pare una pianta robusta e affidabile. I requisiti elencati da Hessayon si potrebbero estendere al 70% degli arbusti, che io sappia. Ma si sa: non è cieco solo l’amore, lo è pure l’odio.

Ribadisco: anch’io ho una repulsione per svariate piante. Per fortuna, molte volte mi càpita di cambiare parere. Alcune idiosincrasie non sono irreversibili. Per esempio, credevo di odiare in modo indiscriminato tutte le piante verdi e quelle da appartamento. Quando sono arrivato qui, più di due anni fa, ho ereditato uno o due vasi sbrecciati con dentro qualche foglia sparuta di aspidistra. Stavo per buttare tutto, quando invece, in uno slancio di carità, ho deciso altrimenti. Ebbene, a distanza di più di due anni, nei loro vasi capienti all’ombra luminosa, quelle piante malridotte sono diventate foreste irte di foglie verdissime, ora cupe e impolverate (le più vecchie) ora smeraldine e brillanti (quelle appena messe). Hanno persino fiorito, raso terra; il fiore è una specie di monstrum bianco-violaceo.

Queste piante ormai le ho rivalutate e prese in simpatia. Non m’importa che se ne sia abusato, una volta, mettendole in tutti gli androni, le sagrestie, gli oratori. Anzi, le trovo ancora più belle per questa carriera dimessa ma lunga, di piante ancillari e al contempo indispensabili. Che altra pianta mettere in un ingresso vetrato frigido e tetro, o tenere pronta alla bisogna per ornare l’altare in un angolo del chiostro o della cappella? Solo loro: le piante del prevosto o della perpetua, appunto.

Coltivarle è facilissimo. Basta non metterle in pieno sole (le foglie incartapecoriscono, al sole) e innaffiarle… quando ci se ne ricorda. A voler essere bravi (avendo tanto buon tempo), si possono lucidare le foglie. Io l’ho fatto solo una volta, con una pezza umida. Sono venute belle lustre, la quintessenza della viridità.

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Acme dell’estate

Da sempre associo il mese di luglio alla prorompente esplosione in fiore dei lillà delle Indie (Lagerstroemia indica), che dalle mie parti adornano le strade a mo’ di alberature e incorniciano i giardinetti privati come soldatini in riga sull’attenti. Non mi piace molto il loro portamento da manichini, ma hanno una fioritura così spettacolare che sono pronto a perdonarglielo. D’altronde, non è colpa loro: siamo di fronte a uno strascico degli anni Sessanta-Settanta, quando “alberello” era sinonimo di eleganza, come per le rose. Colpa dell’uomo, come sempre.

Il mio giardino non faceva eccezione, e lungo il confine esibiva il suo bravo lillà delle Indie, ad alberello, tutto rigido come un bastone; per fortuna era solingo, senza compagni d’arme. L’anno scorso l’ho segato alla base. I polloni, che già spuntavano esuberanti intorno al tronco, quest’anno sono alti più di un metro e mezzo. Ora sono in fiore. Sono molto soddisfatto: da un alberello ingessato, incongruo nel mio giardino selvaggio e would-be spontaneo, ho ottenuto uno splendido arbusto. In futuro mi ripropongo di valorizzarne quattro cinque branche principali, sfrondando l’affollarsi dei polloni, in modo che assuma un portamento un po’ arrotondato e poco assurgente. Tra l’altro adesso che non c’è più la magnolia a insidiarlo con la sua ombra non ha nemmeno una traccia di mal bianco. Bene.

Altra pianta immarcescibile e vigorosa che associo alla calura di mezza estate è l’oleandro, coi suoi fiori dall’odore venefico di mandorla amara. Che piante meravigliose. Chissà perché una volta le si coltivava in vaso, per ricoverarle o proteggerle in inverno; ora siamo più consapevoli della loro sostanziale rusticità, e del fatto che solo in piena terra possono svilupparsi al meglio.

Ecco qualche foto rubata in giardino stamane, prima di lasciarlo a cuocere sotto il sole arroventato.

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Un’infestante stupenda ma temibile (soffoca le piante avvolgendole tra le sue spire…): il convolvolo selvatico.

Heliopsis helianthoides 'Bressingham Doubloon'

Una perenne comprata da Un quadrato di giardino, il mio vivaio preferito. Arrivata malconcia (per colpa del caldo), si è ripresa presto.

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Blu elettrico

Convolvulus tricolor

Dopo un provvidenziale rovescio, l’aria si è sgravata dell’afa, il cielo è ben ripulito e tutto brilla di un colore saturo e vivido. Sembra un mondo diverso, quasi il frutto del lavoro di un bravo colorista. Mentre mi aggiro in giardino, in giornate come questa, mi sovviene ogni volta l’incipit di Mrs DallowayAnd then, thought Clarissa Dalloway, what a morning—fresh as if issued to children on a beach. Vorrei tanto rileggere tutto il romanzo, chissà se ne avrò mai il tempo…   

In giornate così terse, anche l’erba appare più verde. Non è solo perché non c’è più l’umidità a filtrare ogni cosa con un effetto foschia o prospettiva aerea, ma anche perché basta un acquazzone a sferzare le piante a nuova vita, rimettendovi in circolo la linfa e scuotendole dal torpore letargico dei giorni più roventi e afosi.

Tra i vari colori squillanti che attirano il mio sguardo – il rosa di Lagerstroemia indica, il fucsia dei settembrini in prefioritura, il giallo pallido di una bocca di leone – mi coglie di sorpresa il blu elettrico di un gruppuscolo di Convolvulus tricolor. Un colore insolito, quasi artificiale, intensificato dal contrappunto del giallo e del bianco. Noi giardinieri si tende a essere approssimativi in fatto di colori: per la precisione, questi fiori virano un po’ al viola, non sono blu puro. Peraltro credo che il blu puro sia una chimera, nel mondo vegetale. I miei convolvoli fino a prima della pioggia vivacchiavano per miracolo in un angolo assolato, ammorbati dal solito ragnetto rosso e ancora un po’ contrariati per il trapianto… Quanto può un temporale estivo!

Tornando dalla facile esaltazione alla prosaica realtà, devo constatare con allarme che con l’acqua c’è stata anche una recrudescenza di Armillari(ell)a mellea: sfoggio di carpofori (alias “funghi”) e morte di un malvone nei pressi del ceppo marcescente della robinia abbattuta due anni fa. Ovviamente sto drammatizzando: le rizomorfe si propagano lente lente (sia pure inesorabili), quindi l’efflorescenza di funghi, per quanto coreografica e inquietante, è solo il segno estremo e visibile di una progressione che dura da almeno due anni. Leggo con preoccupazione che, dopo il ritiro dal mercato dell’Armillatox®, non esistono mezzi professionali od hobbistici per combattere Armillaria. Occorre scavare, eliminare il materiale infetto (c’est à dire tutto l’apparato radicale: si fa prima a mettere una bomba…), lasciare lo scavo respirare per mesi, non ripiantare specie sensibili (potenzialmente, tutte) per qualche anno, curare poi il drenaggio e micorrizare i futuri impianti. Tre quarti di queste misure sono impraticabili o richiedono fatiche erculee; fortuna che non ho un vigneto o frutteto: lì sì che sarebbero guai seri…

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Fioriture le più varie

Nessun post stucchevole e prolisso; nessun divertissement pseudoletterario; nessun esercizio narcisistico di stile. Bando alle divagazioni oziose leziose vezzose. Oggi pubblico solo tre semplicissime foto di fiori. Non c’è tempo di documentare le tante fioriture estive: non si fa che innaffiare innaffiare innaffiare, senza posa.

La prima foto ritrae un astro, puro e schietto, timidino; è tutto botton d’oro centrale e cortissime ligule a raggiera. Poi c’è un giglio candido (non è però Lilium candidum, troppo tardi ormai per quelli), comprato da Ingegnoli due anni fa e tenuto in vaso. Da ultimo, una fioritura spontanea, un radicchio selvatico (Cichorium intybus); nei campi incolti le cicorie formano stupende nuvole pervinca, io ne ho solo tre quattro esemplari che ho salvato dal diserbo.

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Carducciando un po’…

Mentre lavoricchio in giardino mi sovvengono brani e frammenti. Stamane, chissà per quale associazione, mentre innaffiavo mi ronzava in testa il famigerato T’amo-pio-bove di ginnasiale memoria: forse la mattinata placida, coi cani irosi del vicino ridotti a più miti consigli dall’afa che stronca.

 

Nessun bove nel mio microcosmo, né gallina o mulo o porcellino. Solo fauna selvatica e financo selvaggia, benefica o molesta. Dopo aver acquato mi son messo un po’ a caccia di cavallette, novello Apollo parnópios. Sono ancora piccole, di almeno tre specie diverse, di cui solo due ho identificato; oltre a questo, le differenzia pure il colore, pur all’interno della stessa specie: per esempio, la classica cavalletta italica è ora verdognola ora marroncina, da piccola, un po’ come le mantidi (resto aperto a correzioni e bacchettamenti da parte di eventuali entomologi tra i miei molto meno che venticinque lettori). Le locuste hanno una fame atavica, funesta, proverbiale. Più in basso allego la foto di una foglia di malvone dopo il fiero pasto.

 

Catturarle non è facile. Occorre, più che velocità, tattica. Le si deve stringere tra le dita e la foglia o il fusto cui sono poggiate, in modo che non abbiano via di fuga. Finché son piccine è agevole, poi crescendo metton su cosce e polpacci temibili, e se le si stringe tra le mani si divincolano con veemenza facendo scattare a più non posso le zampe, che segano e tagliano la pelle come lame. Un’esperienza da non ritentare.

 

Una volta che le si ha tra le dita, è necessario portare a termine l’impresa. Le si fa scorrere senza premere per non fare frittate immonde. A quel punto le si posa sull’impiantito tenendole per un lembo col dito e giù di ciabatte per farne marmellata. A volte sono più ardito o collerico e allora le spremo tra le dita. Poi corro a lavarmi le mani: leggevo da qualche parte che possono veicolare la salmonellosi e anche chi le mangia (sic) lo fa previa cottura (ora sì che mi sento tranquillo).

 

Tornando al bove, mi è saltato l’uzzolo di fare il verso al Carducci; ne è venuta una poesiola grottesca. Eccola qui:

La locusta

Locusta, io t’odio; e ributtante un senso

Di ripulsa e schifo al cor m’infondi,

O che vorace come lupa scempio

Fai e qual tabe sulle piante incombi,

O che scattando ben per tempo

L’agil man dell’ortolano scampi:

Ei ti maledice e scaccia, ma tu con ampi

Balzi e accorti occhi ti salvi.

E col tuo defecar atro e turpe,

Col tuo mai sazio crapular di ganasce,

Lo fai della natura odioso, che non fu mai.

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Résumé dell’ultimo mese

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Rapito dal fascino ambivalente dei malvoni (sgraziati e leggiadri, facillimi e insidiosi, superati e sempre attuali), l’estate scorsa ne ho seminati un po’ della serie ‘Halo’, trapiantandoli in un fazzoletto riarso e petroso tra il lillà e una fila bassa di rose, a fare da quinta o cuscinetto. L’allegro assembramento di steli gagliardi si produce in questi giorni in uno spettacolo multicolore che alletta api e farfalle. Le piante sono coriacee e, pur essendo allampanate, hanno un fusto che non si piega qual canna al vento, ma si flette solo un po’ per le raffiche, restando ancorato saldo al terreno. Sono rotte a tutto; sfigurate dalla ruggine, crivellate dalle cavallette, smerlettate dagli antofagi: ma eccole sempre lì, che svettano invitte. Quando ho visto le pustole di ruggine picchiettare le foglie, a inizio stagione, ho avuto l’impulso iconoclasta di sradicare tutto: per fortuna mi sono frenato. La ruggine ha allignato, eppure le piante – per quanto  imbruttite e malconce – ancora non si dànno per vinte. Anche i ghirigori degli insetti che sforacchiano le foglie paiono recare più fastidio all’occhio del giardiniere esteta che vero guasto alle funzioni vitali delle piante.

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Nei vasi prosperano le dalie, cotte dal sole, e le ortensie, in un angolo fresco e ombroso. Le dalie sembrano ancora indenni dai soliti noiosi ragnetti, che causano chiazze depigmentate sulle foglie. Le ortensie si esibiscono in sfere fiorite inusitate, fuori misura rispetto ai vasetti di coccio in cui sono costrette. Hanno qualche foglia necrotica: purtroppo sono intervenuto tardi in loro soccorso e una prolungata clorosi ha lasciato questa traccia indelebile.

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Di sera mi piace sporgermi dal davanzale sul retro per osservare torme di rane e rospi di ogni foggia e grandezza uscire dall’aiuola umida delle pervinche o dal fresco corridoio che costeggia la casa a confine col muraglione del vicino. Col loro incedere lento a balzelli ineleganti mi suscitano un’immensa, divertita simpatia. Conto sul loro aiuto per tenere a bada il brulicare d’insetti e nemici multiformi del giardino. Ecco qui sotto uno di questi anfibi fedeli, che si è avventurato a caccia un po’ prima degli altri. Quelle horreur! Che visione turpe: il poveretto è tutto pieno di peli del mio cane, ubiquitari come i batteri. Te li ritrovi nel letto, nel piatto, in bocca, ovunque. Non si salvano neanche gli anfibi!

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Oh mamma: non si può mai star tranquilli! Sbaglio o sono chiodini? Proprio a fianco del ceppo marcescente della robinia abbattuta due anni fa. Notavo che l’ortensia bianca lì a fianco era stenterella… Ecco perché: la funesta Armillaria mellea, una vera iattura. Chissà come farò, anche perché ci sono molti altri ceppi in giardino (la betulla, i peschi, l’alloro, la magnolia: tutte essenze che ho falcidiato nella mia  follia di riforma del giardino preesistente…).  Bisognerebbe scavare, eliminare ceppi e terreno, disinfettare, non piantare per mesi.

Ho lasciato andare a seme il prezzemolo. Come tutte le ombrellifere (e le labiate), riesce irresistibile a numerosi insetti.

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Andando nel sole che abbaglia

Lascia sgomenti la canicola. D’estate qui la pioggia latita a lungo. L’afa ti prende alla gola, toglie il fiato, opprime. Caldo e umido. Le piante soffrono per il secco, si ammalano per l’umidità. Il sole impietoso strina le foglie degli alberi, gli steli delle anemoni giapponesi si lessano e piegano, i garofani dei poeti già trapiantati accartocciano le foglie a proteggersi. Il terreno che mi ritrovo, difficile da ammendare se non con sforzi titanici e su tempi biblici, forma crepe larghe e profonde, si cementa e spacca. Il prato selvatico è ingiallito e polveroso. Nell’aria si spande l’aroma speziato delle rose. Le ipomee sono floride al mattino, dopo son tutte un intrico di foglie vizze e flosce. Salvo le piante con foglie coriacee o cerose, quasi niente ha un bell’aspetto verde brillante: c’è il verde stinto e slavato, c’è il giallo venato di marrone, c’è il verde marmorizzato di giallo per le punture inferte da aracnidi e insetti, c’è il verde a chiazze bianche pulverulente per l’oidio. Tutto anela alla pioggia. La terra riarsa non aspetta che questo per una breve ma intensa seconda primavera – a second spring of beauty and youth. E il giardiniere, empatico, scruta il cielo terso e impetra pietà.

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Apice dell’estate

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Petunie dono dal vivaio Degl’Innocenti, dove ho ordinato qualche giaggiolo.

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Cosmos.

Gladiolo comprato da Raziel.

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Petunie.

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Ibisco nato da seme. Un grande classico, in questa tinta, nei giardini di campagna e suburbani qui in Veneto.

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Infaticabili portulache.

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Tagete da seme (Thompson-Morgan), giallo canarino chiaro; seminato in giugno, molto tardi…

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Quando si dice giardino spettinato…

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Arruffamento massimo.

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Giardino spelacchiato e un po’ riarso.

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Fioriture intrecciate, a cascata: un caos.

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Le ipomee, a furia di innaffiarle, si sono liberate dal ragnetto rosso; ora si salvi chi può…

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Cassetta di tagete. Non mi piacciono quelli color mattone. Di tutti apprezzo l’odore verde ficcante.

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Garofanino giunto chissà donde.

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Achillea da seme. Vera xerofila, o pianta da xeriscape com’è più di moda dire. Ama cuocersi al sole, coi piedi tra i sassi.

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Ombra gradita

D’estate, col gran caldo, fa piacere sedere all’ombra di una di fiori odorata arbore amica (arbor è femminile). Nel mio caso non può che essere l’ombra di una Magnolia grandiflora, unico albero d’alto fusto del giardino. A esser precisi, in questi giorni la fioritura è bella che esaurita da un po’, sicché di fiori odorata si può magari riferire ad altre fioriture che spandono odori grevi e sensuali, come le petunie un po’ passite dalla calura, o qualche rosa sparuta che tenta di rifiorire, o ancora le belle di notte, se è prima mattina o tardo pomeriggio.

C’è da dire, però, che di rado il giardiniere siede all’ombra, ozioso, a godersi i frutti di cure e fatiche. Sùbito scorge una foglia accartocciata o ingiallita da spiccare, qualche macchia sospetta da analizzare più da presso, una pianta in vaso bisognosa di un’innaffiatura di soccorso. Ed ecco allora, soverchia, l’ansia di agire, intervenire, irregimentare, risolvere – pena un forte senso di colpa per omissione ai propri doveri.

Siamo qui, credo, alla base e al cuore della dicotomia propria del fare giardinaggio. Sono due modi di essere, due atteggiamenti, due approcci entro i quali si oscilla. Da un lato la non azione fukuokiana-gandhiana, il giardinaggio terapeutico, lo zen o lo yoga in giardino, la pace e il rispetto, il senso di armonia, l’appagamento, i ritmi atavici e rasserenanti, l’accettazione del limite e del caso, la ripetitività che guarisce, la contemplazione del bello; dall’altro l’ansia da prestazione, lo zappare indefessi per espiare l’esistere, l’urgenza di agire, la sindrome da check list, la natura da domare e ridurre alla ragione, l’ammazzarsi di fatica a séguito di rabbiose frustrazioni, l’imperativo borghese il faut cultiver notre jardin. Dove mi colloco? Ineluttabilmente abbarbicato al pendolo che dondola tra un opposto e l’altro, nella massima incoerenza e altalenanza. Senza contare che talora abdico cedendo a un’apatia rassegnata, per esempio di fronte ai geli e alle nebbie invernali.

Divagazioni pseudofilosofiche a parte, resta assodato che panche, seggiole, gazebi sono prerogativa, in giardino, più degli ospiti che dei giardinieri. Resta altresì, e in parentesi, assodato che Magnolia grandiflora (eccezion fatta per ‘Little Gem’ e altre recenti creazioni) è inadatta ai piccoli giardini e che quando ce la si ritrova sul groppone in eredità restano solo due strade da battere: potarla drasticamente, vedendola ridotta a tarpato moncherino, o eliminarla. Da me è frequente nei piccoli giardini, e ogni due anni i vicini la potano a cono; così ho fatto anch’io, ma penso che la eliminerò del tutto. D’accordo: sono piante maestose ed eleganti, forti e resistenti. Ma stanno bene nei grandi parchi, secondo me, dove si può lasciare che le foglie, che cadono copiose, si ammucchino indisturbate ai loro piedi.

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Una graziosa brassicacea

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Alisso o lobularia, della stessa famiglia dei cavoli. Piccola tappezzante da zone assolate. Profumo intenso, inebriante, di miele. Come si vede nella foto sotto, gli/le basta una fessura per spuntare, anche sul marcipiedi (zelanti vicini di casa armati di diserbante permettendo…).

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Mirabile…

Una pianta da ammirare per molti motivi. Facile, sana, prodiga, prolifica, profumata. Rustica, quello no; ma è molto facile ottenerla da seme di anno in anno, o conservarne i tuberi per ripiantarli, come le dalie.

In realtà il nome latino, Mirabilis jalapa, le viene dalle straordinarie prerogative di trasmissione genetica dei caratteri, che si sottraggono in parte alle classiche leggi di Mendel. A differenza dei fiori dei piselli, studiati dal celebre monaco-scienziato, le belle di notte si screziano in mirabili variegature di generazione in generazione. Volendole tutte di un colore puro di stagione in stagione occorre raccogliere con pazienza solo i semi prodotti da piante con infiorescenze di una certa tinta. Impresa da Sisifo, dato che le piante si riseminano da sé a profusione. Esistono anche selezioni monocromatiche; Chiltern Seeds, ad esempio, ne ha una rosso rubino, quella della prima foto qui sotto.

I semi sono molto belli: sembrano piccole bombe a mano nerastre; sono abbastanza cicciotti, quindi facilmente maneggiabili e seminabili. Io non mi prendo più la briga di spiccarli e preservarli, lascio che le piante rinascano a loro talento. Questo metodo, utile anche con le aquilegie e le digitali, fa sì che le piante nel corso degli anni si spostino là dove trovano condizioni ideali. Mi pare che per le belle di notte si tratti delle zone luminose ma un po’ schermate dai raggi cocenti agostani, che le afflosciano un po’ troppo.

Gli inglesi le chiamano four-o’-clock-flowers: sono fiori serotini e notturni. Mi piace aspirare la loro fragranza fruttata tornando da una passeggiata serale, lasciandomi stordire per qualche istante.

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