And then some day you’ll pass my way …
…
See gold and crimson, bell and star,
And catch my garden’s soul, and say:
‘How sweet these cottage gardens are!’
(Edith Nesbit)
…
See gold and crimson, bell and star,
And catch my garden’s soul, and say:
‘How sweet these cottage gardens are!’
(Edith Nesbit)
Per ottenere quest’effetto occorre piantare i bulbi di tulipano su due strati. Si riempie un bel vaso capiente di comune terra da orto, senza letami o terricciati. Si dispongono i bulbi molto vicini su un primo letto a venti centimetri dal bordo; poi si aggiungono dieci centimetri di terreno e si adagiano i rimanenti bulbi, sempre a poca distanza l’uno dall’altro, a formare un secondo livello; infine, si procede a colmare la terracotta lasciando solo due dita dall’orlo. Si può concimare con un po’ di farina d’ossa, mischiandola al sostrato. In primavera, durante la fioritura, si possono sostenere i bulbi con fertilizzante liquido per bulbose oppure con un concime organico in polvere ricco di potassio (in tal caso è bene spargerlo appena spuntano le foglie). S’innaffia solo se non piove per parecchio tempo. Terminata la fioritura, le foglie vanno lasciate seccare del tutto, continuando a dare acqua senza esagerare. Tolto il fogliame, i vasi andrebbero tenuti asciutti fino all’autunno. Unico caveat: una volta piantumati, i vasi – già pesanti di loro – diventano di piombo; unica soluzione, se si è stati tanto imprudenti, lasciarli là dove sono stati allestiti, nel mio caso dai miei, che ora si godono il risultato che si vede in foto.
Da bambino mi son preso un’infatuazione potente per i tulipani. Ricordo l’emporio vicino a casa, che sentiva di mangimi, granaglie e pastoncino, dove in cambio della mia magra paghetta settimanale potevo avere tre-quattro patatine cuoriformi, protette da una tunica secca secca che ti si sfaldava tra le dita, con una promessa di germoglio in cima, a forma di virgola verde pallido. Ci andavo a marzo, ignorando che la stagione più idonea per piantare è l’autunno. Nella bottega non c’era molta scelta di forme o colori, e all’epoca – avrò avuto nove anni – mi piacevano le tinte allegre e sgargianti, perciò me ne tornavo a casa con bulbi che avrebbero portato corolle rosso scarlatto e giallo intenso. L’anno successivo s’imbastardivano e i fiori nuovi erano gialli con striature e arabeschi rossi, o viceversa.
Adesso che ho una casa e un giardino miei, di tulipani così non ne ho (né li voglio, ché ora prediligo le tinte pastello). Eppure, la passione per questi fiori semplici e meravigliosi rimane, magari sopita o messa un po’ alle strette da tanti altri amori vegetali concorrenti. L’autunno scorso, quasi a dicembre, ho interrato, con molta pomice, sabbia e brecciolino, dei bei bulbi di Tulipa saxatilis ‘Lilac Wonder’ che Valeria, amica e provetta giardiniera, si era procurata a una svendita di fine stagione presso l’ormai leggendario “Floriana Bulbose”. Che dire? Il risultato è commovente e rischia di rinfocolare quell’antica passione, portando a prossimi acquisti compulsivi e – ahimè – scriteriati, vista la carenza endemica di spazio vitale per le piante che affligge il mio fazzoletto. I ‘Lilac Wonder’ sono proprio belli, nella loro leggiadra semplicità, con quei tepali appuntiti e quell’areola giallo zafferano che pare un tuorlo d’uovo.
Come il Werther tutto commozione e palpiti del cuore anch’io vorrei zum Marienkäfer werden per perdermi nella bellezza sorgiva della primavera, diese Jahrszeit der Jugend… I prati sono tappeti persiani di fiori, tutti pennellati del bianco delle pratoline, del celeste delle veroniche, del giallo dei tarassachi. Verrebbe voglia di rotolarcisi, incuranti della terra, dell’allergia, degl’insetti.
Il giardino è funestato da marciumi e asfissie, con questa pioggia petulante. Ci sono zone che non perlustro da novembre, ché non hanno mai fatto in tempo a sgrondare le acque soverchie. Anche là dove ci si può avventurare – i viottoli coperti di ghiaia, le aiuole raggiungibili dal bordo in cemento –, se si diserba a mano ci si ritrovano le dita impiastricciate di argilla, che forma come una pasta untuosa sotto e intorno alle unghie. Diverse infiorescenze sono sfigurate dalla muffa grigia; le bocche di leone e le violacciocche mi rivolgono moncherini acefali che fanno tanto gabinetto degli orrori vegetali. Anche le rosette basali di varie perenni sono fradicie e marce. D’improvviso, però, mi attira una macchia – spargola, a dire il vero – di allegri narcisi. Sono un po’ incongrui, quasi un ossimoro, in tutto questo grigiume. Sono di un giallo abbacinante, caldo, saturo. Mi sembrano un manipolo impavido di araldi che annunciano la primavera a dispetto di tutto. Hanno persino un che di sfrontato. Mi pare un buon segno: prima o poi la stagione virerà al bello.
Qualche sprazzo di sole di tanto in tanto si apre e illumina una distesa di fiori presi d’assedio da bombi, api, sirfidi. Non sempre riesco a ripescare per tempo la macchinetta, sicché le foto spesso hanno luce fredda, da cielo velato o coperto. Le temperature restanto basse e il terreno è zuppo. Il giardiniere si dedica solo ai vasi e si rinfranca per le fatiche future…
Il pleure dans mon cœur
Comme il pleut sur la ville;
Quelle est cette langueur
Qui pénètre mon cœur? (Verlaine)
Il giardiniere (l’uomo?) non è mai contento. Se non piove, perché non piove. Se piove, perché piove.
Ho invocato la pioggia per settimane, che adesso mi aduggia e m’inquieta. Piove ormai quasi tutti i giorni da giorni. Rose e peonie pendono grasse e sguaiate come maschere sfatte. Facelie e coriandoli svettavano al cielo ma adesso la pioggia li preme e li alletta pesanti per terra. Arrivano spore di funghi e si posano e aspettano; se ne stanno come in erba l’angue in agguato; al primo sole sarà tutto un fiorire di chiazze e di macchie.
Tolgo dai vasi in balcone le violacciocche, scomposte, sparute, sfiorite. Ne viene un mazzetto, fâné. Mi par degno di foto, così lo immortalo. S’intona col grigio di fuori, di dentro, di tutto. Non mi scuce un sorriso ma solo mestizia. Invocherò adesso il sole, come ho invocato la pioggia. Che tronchi la litania balbuziente di questa tristezza.
How many kinds of sweet flowers grow
In an English country garden?
We’ll tell you now of some that we know,
Those we miss you’ll surely pardon.
Daffodils, heart’s ease and flox,
Meadowsweet and lady smocks,
Gentian, lupine and tall hollyhocks,
Roses, foxgloves, snowdrops, blue forget-me-nots.
In an English country garden… (canzone tradizionale)
Malvarose (hollyhocks), garofani, violacciocche, rose, fanciullacce (love-in-a-mist), giuliette (Canterbury bells)… e quest’anno ho perfino le digitali (foxgloves)! Gl’Inglesi hanno tutta la mia ammirazione; cerco d’imitarli, ma c’è una cosa che qui non abbiamo: il clima! Da noi purtroppo non piove anche per quaranta giorni filati… Tornando al cottage garden, mi riprometto di seminare anche Hesperis matronalis, che non può certo mancare in un old-fashioned garden.
Oggi, al ritorno da un breve viaggio per motivi di studio, ritrovo il giardino in pieno rigoglio; ci sono stati tre o quattro acquazzoni che finalmente hanno intriso per bene d’acqua il terreno che ormai supplicava pietà dopo mesi di arsura.
Mi rincresce solo per la distesa fiorita di fronte a casa, che l’anno passato era molto più variegata, mentre ora è una distesa di soli papaveri della California, tutti tinta arancio – a séguito dello scavo eseguito con un mostro meccanico quest’inverno. Evidentemente tutti gli altri semi sono più deboli, o i papaveri della California sono veri eroi dell’autodisseminazione.
Eccoli qui che si bevono il sole a petali ben divaricati, tutti dritti come soldatini. L’aiuola così monocroma, monotona, monocorde non l’avrei voluta. Ho provato a prevenire e rimediare seminando a spaglio papaveri di altri colori, fiordalisi, e praticamente tutti gli avanzi di sementi che ho ripescato dal bussolotto di latta che ho adattato alla bisogna. Pazienza: conviene far buon viso e godersi questo colore intenso, squillante ma ammorbidito dalla consistenza ora cerosa ora sericea ora di velluto. Non conosco altri fiori con la stessa tinta e tessitura.
Però, ecco: vedo occhieggiare qua e là qualche cenno di altri fiori. Alcuni li conosco, altri no. Vedo qualche ciuffetto di Saponaria ocymoides e uno o due timidi fiordalisi. Per il resto, il rettangolo centrale dell’aiuola è davvero una prateria arancione.
Posso dirmi abbastanza soddisfatto di quel che son riuscito a fare per il giardino. Tutto sommato, non è così male. Certo, ci sarebbero ancora infinite modifiche da apportare, ma mi piace anche centellinarmi gl’impegni su tempi lunghi, per avere sempre un progetto in cantiere, una speranza in serbo. Poi, si sa, se si hanno occhi per vedere, in un giardino come in una casa, non si può mai dire di aver finito. Ed è questo uno dei motivi che mi fanno amare il giardinaggio: mi sento come “trasportato in avanti”, sostenuto nello scorrere del tempo da un’ininterrotta progettualità. Vado a letto la sera enumerando mentalmente i lavori in sospeso e mi addormento col sonno dei giusti sapendo di aver così tanto da fare e dare. Se mi aggredisce l’apatia o lo spleen, come a tutti almeno a volte succede, non ho che da guardarmi attorno per ritrovare la spinta ad agire, accumulando una stanchezza fisica che aiuta a dissipare le nebbie mentali o spirituali. In fondo, è una manifestazione del concetto di cura, che non può mai venir meno finché c’è vita. Può suonare blasfemo, ma è un po’ come l’amore parentale: cessa solo quando intercorre la separazione ultima.
Passando alla prosaica realtà…
Nel lato est il rosmarino, liberato dall’ombra molesta di un alloro fuori misura infestato dalla cocciniglia, ha ripreso a fiorire allegramente. La bordura di settembrini e rose che ho in mente per il confine è ancora in fieri: i settembrini li ho in parte comprati, in parte ottenuti da divisione dei cespi di piante esistenti; le rose da bordura, scelte tra quelle robuste e shade tolerant, le pianterò quando avrò tempo e denaro, in ogni caso dopo che gli organismi del terreno avranno un po’ degradato gli essudati dell’alloro e di alcuni vecchi cespugli di rose che ho espiantato. Infatti, sotto l’alloro non cresce proprio nulla per un bel raggio, mentre dove c’erano le rose non c’è questo problema, ma occorre comunque evitare il rischio di rigetto che si presenta talora al trapianto di una rosa laddove ne era vissuta un’altra. Per ora nelle aiuole che accoglieranno, finanze permettendo, le rose, ho seminato un miscuglio tipo sovescio, con molte piante mellifere. L’aiuola delle bocche di leone, stremate da un’ultima virulenta fiammata di ruggine (Puccinia antirrhini) lo scorso ottobre, è sparita, soppiantata da crisantemi che ho diviso. Le giuseppine ch’erano sotto l’alloro ora sono offese dal sole diretto e converrà trapiantarle (credo in vasi, da aggiungere nelle zone ombrose dove già ne ho diverse). Sempre a oriente, l’aiuola disordinata in cui crescevano Physalis alkekengi, peonie, Arum dracunculus, una rosa stentata, violette e molte erbacce è diventata un angolo ordinato con giuliette, settembrini, gigli di Sant’Antonio. Qua e là spuntano in ogni caso speronelle e fanciullacce (Nigella damascena), che devo far attenzione a non eliminare col diserbo (manuale). I gigli sono preda della criocera, manco a dirlo, ma per ora mi sto arrangiando con la lotta diretta (leggasi: stritolamento delle bestiole laccate di rosso tra le dita, con gran spargimento di sughi scarlatti). La magnolia non c’è più, sicché c’è più luce e spazio radicale per l’ibisco bianco, la deutzia, il gruppettino di lillà bianchi. Sempre lungo il lato est, si nota un attacco di ruggine alle pervinche, che fioriscono lo stesso. Nell’angolo in ombra: menta, melissa, colombine, prezzemolo che sale a seme. Lungo la casa, dove vorrei un giorno creare una bordura di ortensie, rispuntano le calle semideistrutte dal gelo, fiorisce Iberis sempervirens (mentre I. semperflorens è al termine), accumulano risorse per il futuro giacinti e narcisi, si apprestano a fiorire rose e garofanini dei poeti, oltre a un mare di giuliette (avrò esagerato?). C’è poi la zona delle peonie. In autunno le ho concimate con guano e cenere. Per carità, sarebbe stato meglio usare le scorie K (ex scorie Thomas), ma non disponendone ho cercato qualcosa che avesse buona dotazione di fosforo (per le radici) e potassio (per i fiori). Chissà…
C’è poi il lato sud, sul davanti. Quest’inverno avevo vissuto un piccolo lutto perché questo fazzoletto – dove l’anno scorso erano fioriti fiordalisi, papaveri, garofani, achillee, margherite, coreossidi e millanta altre specie, che si erano riseminati abbondantemente – per colpa di una perdita ha dovuto subire uno scavo con un escavatore meccanico che ha distrutto tutto. Temevo un deserto, quest’anno, ma la zona si è ripopolata velocemente di papaveri della California: sono nati a centinaia, fitti fitti, e non ho avuto cuore di diradarli. L’effetto sarà meno variegato e c’è il rischio che le piante si ammalino, così ravvicinate: vedremo! Sempre sul davanti, sono in fiore le facelie e uno o due giaggioli del tipo Iris pallida dalmatica, solo in parte scampati allo scavo, e forse ancora troppo deboli per una degna e ricca fioritura. Profumo sottile e dolce.
Il lato ovest è massacrato da un’epidemia feroce di ruggine delle malvacee. Puccinia malvacearum: famigerata compagna delle malvarose come la macchia nera lo è della rosa. L’anno scorso non aveva fatto notare la sua presenza e i miei malvoni, nati da sé da semi portati dal vento, erano fioriti belli sani senza ruggine persino a mezz’ombra. Quest’anno, invece… un disastro. Si fa presto a dire: eliminate le foglie colpite; da me non ci sono in pratica foglie indenni. Eppure, ho scelto di non intervenire, perché gli steli fiorali si stanno già preparando e sembrano molto grandi e pieni. In ogni caso, a fine stagione eliminerò tutte le piante e trapianterò – se l’avrò seminata – la cugina rust resistant, Althaea (o Alcea: solito guazzabuglio botanico-tassonomico) ficifolia, accontentandomi dei suoi fiori più semplici e dei colori meno attraenti. Stessa cosa farò per le bocche di leone, vittime della ruggine pure loro, sostituendole con piantine di una varietà resistente che ho già seminato.
Come sono prolisso! Tra l’altro sembra che il giardino sia enorme, mentre è davvero minuscolo!
Qui di séguito qualche foto.
What is this life if, full of care, / We have no time to stand and stare…
In giardino, da marzo a settembre, c’è talmente tanto da fare che davvero si rischia di obliterare l’invito del poeta a sostare e guardare. Oggi ho avuto – è un’eccezione – diverse ore da dedicare al giardino. Tra un’incombenza e l’altra, però, ho sostato e osservato, memore di quei versi. Il fiore che beve il sole cullato dalla brezza, l’ape che entra ronzante in una corolla e ne esce inzaccherata di polline, la lucertola che sguscia da un antro e si crogiola al caldo; ma anche il vaso sbrecciato, la terra smossa, il buco in terra, la foglia butterata: non vedo che bellezza intorno a me, in questi pochi metri di caos vegetale.
In un grande vaso a cassetta, di volgare plastica, si schiudono i fiordalisi, seminati a ottobre.
Ovunque è un brulicare di insetti, ragni, piccoli rettili. Ecco due ospiti immortalati.
Lungo un bordo di cemento si è ormai bene espansa Phlox subulata, in tre colori (fuxia, malva pallido, bianco).
Sono belli i fiori selezionati, seminati, ripicchettati, trapiantati, concimati, innaffiati; ma sono belli anche quelli che fanno tutto da sé, come le molte specie del mio arazzo fiorito, ove pure sono un po’ soverchi i gialli squillanti dei tarassachi – un grido di gioia.
Sono meravigliosi, certi nomi volgari di fiori, un po’ in tutte le lingue. Purtroppo, io stesso abuso del nome latino italianizzato, di solito del genere, talora della specie, appiattendo e neutralizzando tutta la densità storica, poetica, popolare, fitoalimurgica del nome volgare. Allora Campanula medium si fa banale campanula (e non ammiccante giulietta), Dahlia resta dalia (e non è giorgina), Aquilegia è solo aquilegia (e non colombina), Bergenia perde solo la maiuscola (e non è giuseppina)… Si potrebbe molto continuare, ma mi si sono per caso inanellati tutti nomi leziosi da vecchia zia giardiniera.
Ecco qui sotto, a proposito, le mie colombine, nate da seme, ora al secondo anno. All’ombra luminosa hanno finalmente trovato requie e un loro ubi consistam (consistant?).
Ci sarebbero millanta altre cose da fotografare. Ma il tempo deficita. Per elencare solo quello cui ho atteso oggi: diserbo manuale; innaffiatura dei vasi; divisione e trapianto di alcuni cespi di settembrini (sarebbe un po’ tardi, ma sono robusti e tollerano ogni strapazzo); semina di Cobaea scandens; ramazzata di foglie e semi del ligustro; lotta manuale contro cavallette, bruchi e criocere del giglio; vangatura di un fazzolettino di terra; eliminazione delle foglie più deturpate delle malvarose (Puccinia malvacearum impazza e furoreggia!); controllo del vicino con la coda dell’occhio (onde evitare che diserbi con veleni il marcipiedi di fronte a casa, dove sono nati da sé papaveri, speronelle, calendule, lobularie, papaveri della California…).
Ecco però un ultimo scatto: una delle tante piantine nate in crepe e fessure, in questo caso una bocca di leone.
Come spesso succede, il mio piccolo mondo verde è scomposto e caotico. Non pioveva da tempo e oggi, finalmente, è piovuto. Ne approfitto per pubblicare qualche foto dei giorni scorsi.
Sul balcone fioriscono le violacciocche e i tulipani; si preparano a fiorire Convolvulus cneorum e le mie adorate e altrove decantate giuliette. Al posto delle ipomee, stremate dal ragnetto rosso gli scorsi anni, ho deciso di addossare a una grata in legno delle dipladenie bianche e rosa, ancorché a malincuore per il loro successo commerciale che me le rende un po’ sospette.
Il prato misto spontaneo è anche questa primavera un arazzo dalla freschezza naïf, tuttora in fase di metamorfosi perché l’ombrìa della magnolia (abbattuta a gennaio) è sostituita dal solatìo, ora mite ma che si farà impietoso d’estate… Prevalgono i gialli del tarassaco e i bianchi rosati delle pratoline, ma a cercare bene ci sono anche gli azzurri delle veroniche, i rosa più intensi del trifoglio, i blu delle ultime viole. I vicini hanno già rasato il loro prato impeccabile almeno due volte, pelandolo a vivo con decine di viavai del tosaerba per pochi metri quadri. Guardano alla mia giungla con disappunto, un po’ come i vicini di cui parla Michael Pollan in Second Nature, che attentano ai valori comuni della gentry americana colla loro negligenza nella cura del prato, vero totem della middle class e dei suburbs. Non sospettano che ci siano altri modi di concepire il giardino, meno plastificati.
Le malattie crittogamiche sono ancora sotto controllo, ma percepisco come siano lì lì per esplodere non appena le temperature si alzino e l’umidità si faccia insidiosa. Sto passando e ripassando macerato di equiseto, a scopo preventivo, nella speranza che riduca la necessità di passare lo zolfo ramato o il verderame. Quanto ai parassiti, ho deciso di usare molto di più la semplice lotta manuale, quest’anno, limitando l’uso di prodotti, per naturali che siano, come il legno quassio e l’olio di neem, che di solito utilizzo se ci sono attacchi massicci. Le cavallette sono già in piena proliferazione: si sollevano dal prato (autentica grillaia!) quando ci si passeggia sopra, e si beano al sole sui listelli di legno secco del balcone. Ci sono poi le cavallette tipiche solo dei colli veneti, Barbitistes vicetinus, che anche quest’anno sono già presenti, ancora piccolissime, nelle due versioni verde e melanica. Ne schiaccio tra le dita quante più posso, con sadico piacere misto a disgusto. Ne capto la presenza prima ancora di individuarle grazie ai trafori delle loro rosicchiature su fiori e foglie.
Nella serretta le dalie, che ho ritirato con il loro vaso e protetto con tessuto-non tessuto, stanno germogliando. Che sollievo! Temevo che questa prassi eterodossa riuscisse loro fatale (non avevo reale contezza di quale temperatura raggiungesse la serretta, d’inverno). Non c’era comunque il tempo, a novembre, di estrarle, disinfettarle, riporle, controllando poi che non seccassero né ammuffissero… Sono invece andate le calle bianche (Zantedeschia aethiopica), altra presenza démodé del mio giardino, stroncate dal gran freddo di quest’inverno. Non erano tra le mie presenze predilette, per quelle loro spate candide, senza profumo, di un’eleganza un po’ algida e frigida.
Nei prossimi giorni non avrò molto tempo e la pioggia scatenerà la crescita delle malerbe. Purtroppo avere un giardino progettato in modo scriteriato e caotico significa anche non riuscire bene ad accedere a tutte le zone per il diserbo accurato. Ci si può provare, con evoluzioni e torsioni circensi, ma l’esito è incerto e il rischio di pestare le plantule di fiori nate da sé qua e là (specialmente le speronelle) è molto alto. Sarebbe un delitto! Eppure, un po’ di largo occorre farlo…