Hortus Incomptus | un piccolo giardino spettinato
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Idiosincrasie e aspidistre

In fatto di piante, come in qualsiasi altro àmbito umano, esistono simpatie e antipatie. Talvolta sono blande, talaltra radicali. Spesso, oltre a essere viscerale, una particolare avversione è anche immotivata. Un capriccio idiosincratico. Eppure, tutti cerchiamo di giustificare le nostre inclinazioni e repulsioni, di razionalizzarle: è normale. Succede anche ai grandi esperti di giardinaggio: non dicono solo “la tal pianta per me è orribile” o “adoro questa pianta e basta”, ma argomentano, esemplificano, illustrano.

In fatto d’idiosincrasie, io stesso non mi sottraggo alla tendenza generale. Ma mi pare di trovarmi in buona compagnia. Ricordo (e mentre scrivo vado un attimo a recuperare la Garzantina) che il grande Pizzetti dà alle povere cosmee una stroncatura implacabile, seppur ben ragionata e circostanziata.

Ecco qualche stralcio della requisitoria (il maschile è dovuto al termine “cosmos”, preferito dal Pizzetti a “cosmea”): arruffatissimo sovrano degli ortiun miscuglio di colori spesso bruttodue fiori […] da portare in chiesa o al camposantoil suo fogliame […] non è dei più belliè una di quelle piante che il primo temporale massacrabasta una tempesta e della pianta non rimane che un ammasso di verde calpestato, di pallidi rovesci di foglie, di capolini mutilati […].

Lo bello stilo del Pizzetti è tanto cristallino e raffinato che non gli si può che perdonare questa critica sferzante, quantunque le cosmee, allegre e inoffensive, meriterebbero una degna difesa, sia pure d’ufficio (che però vi risparmio). Sui singoli punti enucleati dal pubblico ministero non c’è granché da obiettare, ma sembra che il primo motore sia un’avversione di fondo, epidermica e irrazionale, per la singola pianta, al punto che forse viene inclusa solo per dovere di completezza enciclopedica.

Mi sono da poco imbattuto anche in un esempio d’Oltralpe. Il fidatissimo, intramontabile, immarcescibile dottor Hessayon, col suo taglio pragmatico e stile asciutto, boccia senza appello un grande classico come l’ibisco (quello più facile, il siriaco). Nel manualetto The Flowering Shrub Expert, leggo che it has a number of fussy needs and one or two drawbacks. The soil must be free-draining and both full sun and protection from cold winds are essential. In chiusa di paragrafo pare quasi di sentire il dotto sospirare di commiserazione: Do have patience – it takes some time to establish. Insomma, succinto e tranchant. Chissà se tutta questa fussiness è vera almeno in clima britannico… a me non risulta, anzi: mi pare una pianta robusta e affidabile. I requisiti elencati da Hessayon si potrebbero estendere al 70% degli arbusti, che io sappia. Ma si sa: non è cieco solo l’amore, lo è pure l’odio.

Ribadisco: anch’io ho una repulsione per svariate piante. Per fortuna, molte volte mi càpita di cambiare parere. Alcune idiosincrasie non sono irreversibili. Per esempio, credevo di odiare in modo indiscriminato tutte le piante verdi e quelle da appartamento. Quando sono arrivato qui, più di due anni fa, ho ereditato uno o due vasi sbrecciati con dentro qualche foglia sparuta di aspidistra. Stavo per buttare tutto, quando invece, in uno slancio di carità, ho deciso altrimenti. Ebbene, a distanza di più di due anni, nei loro vasi capienti all’ombra luminosa, quelle piante malridotte sono diventate foreste irte di foglie verdissime, ora cupe e impolverate (le più vecchie) ora smeraldine e brillanti (quelle appena messe). Hanno persino fiorito, raso terra; il fiore è una specie di monstrum bianco-violaceo.

Queste piante ormai le ho rivalutate e prese in simpatia. Non m’importa che se ne sia abusato, una volta, mettendole in tutti gli androni, le sagrestie, gli oratori. Anzi, le trovo ancora più belle per questa carriera dimessa ma lunga, di piante ancillari e al contempo indispensabili. Che altra pianta mettere in un ingresso vetrato frigido e tetro, o tenere pronta alla bisogna per ornare l’altare in un angolo del chiostro o della cappella? Solo loro: le piante del prevosto o della perpetua, appunto.

Coltivarle è facilissimo. Basta non metterle in pieno sole (le foglie incartapecoriscono, al sole) e innaffiarle… quando ci se ne ricorda. A voler essere bravi (avendo tanto buon tempo), si possono lucidare le foglie. Io l’ho fatto solo una volta, con una pezza umida. Sono venute belle lustre, la quintessenza della viridità.

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Acme dell’estate

Da sempre associo il mese di luglio alla prorompente esplosione in fiore dei lillà delle Indie (Lagerstroemia indica), che dalle mie parti adornano le strade a mo’ di alberature e incorniciano i giardinetti privati come soldatini in riga sull’attenti. Non mi piace molto il loro portamento da manichini, ma hanno una fioritura così spettacolare che sono pronto a perdonarglielo. D’altronde, non è colpa loro: siamo di fronte a uno strascico degli anni Sessanta-Settanta, quando “alberello” era sinonimo di eleganza, come per le rose. Colpa dell’uomo, come sempre.

Il mio giardino non faceva eccezione, e lungo il confine esibiva il suo bravo lillà delle Indie, ad alberello, tutto rigido come un bastone; per fortuna era solingo, senza compagni d’arme. L’anno scorso l’ho segato alla base. I polloni, che già spuntavano esuberanti intorno al tronco, quest’anno sono alti più di un metro e mezzo. Ora sono in fiore. Sono molto soddisfatto: da un alberello ingessato, incongruo nel mio giardino selvaggio e would-be spontaneo, ho ottenuto uno splendido arbusto. In futuro mi ripropongo di valorizzarne quattro cinque branche principali, sfrondando l’affollarsi dei polloni, in modo che assuma un portamento un po’ arrotondato e poco assurgente. Tra l’altro adesso che non c’è più la magnolia a insidiarlo con la sua ombra non ha nemmeno una traccia di mal bianco. Bene.

Altra pianta immarcescibile e vigorosa che associo alla calura di mezza estate è l’oleandro, coi suoi fiori dall’odore venefico di mandorla amara. Che piante meravigliose. Chissà perché una volta le si coltivava in vaso, per ricoverarle o proteggerle in inverno; ora siamo più consapevoli della loro sostanziale rusticità, e del fatto che solo in piena terra possono svilupparsi al meglio.

Ecco qualche foto rubata in giardino stamane, prima di lasciarlo a cuocere sotto il sole arroventato.

lagerstroemia3

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rosa2

sedum2

snapdragon

convolvulusarvensis

Un’infestante stupenda ma temibile (soffoca le piante avvolgendole tra le sue spire…): il convolvolo selvatico.

Heliopsis helianthoides 'Bressingham Doubloon'

Una perenne comprata da Un quadrato di giardino, il mio vivaio preferito. Arrivata malconcia (per colpa del caldo), si è ripresa presto.

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Blu elettrico

Convolvulus tricolor

Dopo un provvidenziale rovescio, l’aria si è sgravata dell’afa, il cielo è ben ripulito e tutto brilla di un colore saturo e vivido. Sembra un mondo diverso, quasi il frutto del lavoro di un bravo colorista. Mentre mi aggiro in giardino, in giornate come questa, mi sovviene ogni volta l’incipit di Mrs DallowayAnd then, thought Clarissa Dalloway, what a morning—fresh as if issued to children on a beach. Vorrei tanto rileggere tutto il romanzo, chissà se ne avrò mai il tempo…   

In giornate così terse, anche l’erba appare più verde. Non è solo perché non c’è più l’umidità a filtrare ogni cosa con un effetto foschia o prospettiva aerea, ma anche perché basta un acquazzone a sferzare le piante a nuova vita, rimettendovi in circolo la linfa e scuotendole dal torpore letargico dei giorni più roventi e afosi.

Tra i vari colori squillanti che attirano il mio sguardo – il rosa di Lagerstroemia indica, il fucsia dei settembrini in prefioritura, il giallo pallido di una bocca di leone – mi coglie di sorpresa il blu elettrico di un gruppuscolo di Convolvulus tricolor. Un colore insolito, quasi artificiale, intensificato dal contrappunto del giallo e del bianco. Noi giardinieri si tende a essere approssimativi in fatto di colori: per la precisione, questi fiori virano un po’ al viola, non sono blu puro. Peraltro credo che il blu puro sia una chimera, nel mondo vegetale. I miei convolvoli fino a prima della pioggia vivacchiavano per miracolo in un angolo assolato, ammorbati dal solito ragnetto rosso e ancora un po’ contrariati per il trapianto… Quanto può un temporale estivo!

Tornando dalla facile esaltazione alla prosaica realtà, devo constatare con allarme che con l’acqua c’è stata anche una recrudescenza di Armillari(ell)a mellea: sfoggio di carpofori (alias “funghi”) e morte di un malvone nei pressi del ceppo marcescente della robinia abbattuta due anni fa. Ovviamente sto drammatizzando: le rizomorfe si propagano lente lente (sia pure inesorabili), quindi l’efflorescenza di funghi, per quanto coreografica e inquietante, è solo il segno estremo e visibile di una progressione che dura da almeno due anni. Leggo con preoccupazione che, dopo il ritiro dal mercato dell’Armillatox®, non esistono mezzi professionali od hobbistici per combattere Armillaria. Occorre scavare, eliminare il materiale infetto (c’est à dire tutto l’apparato radicale: si fa prima a mettere una bomba…), lasciare lo scavo respirare per mesi, non ripiantare specie sensibili (potenzialmente, tutte) per qualche anno, curare poi il drenaggio e micorrizare i futuri impianti. Tre quarti di queste misure sono impraticabili o richiedono fatiche erculee; fortuna che non ho un vigneto o frutteto: lì sì che sarebbero guai seri…

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Fioriture le più varie

Nessun post stucchevole e prolisso; nessun divertissement pseudoletterario; nessun esercizio narcisistico di stile. Bando alle divagazioni oziose leziose vezzose. Oggi pubblico solo tre semplicissime foto di fiori. Non c’è tempo di documentare le tante fioriture estive: non si fa che innaffiare innaffiare innaffiare, senza posa.

La prima foto ritrae un astro, puro e schietto, timidino; è tutto botton d’oro centrale e cortissime ligule a raggiera. Poi c’è un giglio candido (non è però Lilium candidum, troppo tardi ormai per quelli), comprato da Ingegnoli due anni fa e tenuto in vaso. Da ultimo, una fioritura spontanea, un radicchio selvatico (Cichorium intybus); nei campi incolti le cicorie formano stupende nuvole pervinca, io ne ho solo tre quattro esemplari che ho salvato dal diserbo.

astrocinese

giglio2

radicchio2

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Carducciando un po’…

Mentre lavoricchio in giardino mi sovvengono brani e frammenti. Stamane, chissà per quale associazione, mentre innaffiavo mi ronzava in testa il famigerato T’amo-pio-bove di ginnasiale memoria: forse la mattinata placida, coi cani irosi del vicino ridotti a più miti consigli dall’afa che stronca.

 

Nessun bove nel mio microcosmo, né gallina o mulo o porcellino. Solo fauna selvatica e financo selvaggia, benefica o molesta. Dopo aver acquato mi son messo un po’ a caccia di cavallette, novello Apollo parnópios. Sono ancora piccole, di almeno tre specie diverse, di cui solo due ho identificato; oltre a questo, le differenzia pure il colore, pur all’interno della stessa specie: per esempio, la classica cavalletta italica è ora verdognola ora marroncina, da piccola, un po’ come le mantidi (resto aperto a correzioni e bacchettamenti da parte di eventuali entomologi tra i miei molto meno che venticinque lettori). Le locuste hanno una fame atavica, funesta, proverbiale. Più in basso allego la foto di una foglia di malvone dopo il fiero pasto.

 

Catturarle non è facile. Occorre, più che velocità, tattica. Le si deve stringere tra le dita e la foglia o il fusto cui sono poggiate, in modo che non abbiano via di fuga. Finché son piccine è agevole, poi crescendo metton su cosce e polpacci temibili, e se le si stringe tra le mani si divincolano con veemenza facendo scattare a più non posso le zampe, che segano e tagliano la pelle come lame. Un’esperienza da non ritentare.

 

Una volta che le si ha tra le dita, è necessario portare a termine l’impresa. Le si fa scorrere senza premere per non fare frittate immonde. A quel punto le si posa sull’impiantito tenendole per un lembo col dito e giù di ciabatte per farne marmellata. A volte sono più ardito o collerico e allora le spremo tra le dita. Poi corro a lavarmi le mani: leggevo da qualche parte che possono veicolare la salmonellosi e anche chi le mangia (sic) lo fa previa cottura (ora sì che mi sento tranquillo).

 

Tornando al bove, mi è saltato l’uzzolo di fare il verso al Carducci; ne è venuta una poesiola grottesca. Eccola qui:

La locusta

Locusta, io t’odio; e ributtante un senso

Di ripulsa e schifo al cor m’infondi,

O che vorace come lupa scempio

Fai e qual tabe sulle piante incombi,

O che scattando ben per tempo

L’agil man dell’ortolano scampi:

Ei ti maledice e scaccia, ma tu con ampi

Balzi e accorti occhi ti salvi.

E col tuo defecar atro e turpe,

Col tuo mai sazio crapular di ganasce,

Lo fai della natura odioso, che non fu mai.

dannodacavalletta2

dannodacavalletta5

dannosacavalletta3

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