Ho acquistato qualche esemplare di Gaura da piantare in vaso. Vedendola in auge nelle aiuole di città – ormai molto ben progettate, sicuramente da paesaggisti – mi dava l’impressione di pianta tenace e indistruttibile. Ho dovuto scoprire che in realtà, quando sistemata nelle ristrettezze di una vaso, a solatio, necessita di annaffiature abbondanti e quotidiane. Me le immaginavo quali piante sicure in caso di vacanza breve, da poter lasciare all’asciutto per qualche tempo. Invece: fortuna che di vacanze non ne faccio, perché se si dimentica una sola sessione di bagnatura, la pianta s’intristisce e le fioriture non si aprono. In ogni caso, da un bilancio complessivo Gaura lindheimeri esce vittoriosa per le sue molte virtù e la sua estrema bellezza. Non ho pentimenti. Ne vorrei altre, ovunque. A volte mi prende un’ubriacatura per questa o quella pianta, e me ne immagino allora distese, ammassi, cascate. Ecco: un giardino tutto di gaure – un gioco da bambini fatto di asticelle sottili infisse nel terreno con sospese miriadi di farfalle di carta velina.
Portulaca: tra le poche piante che non semino e compro “pronte”, per averle presto fiorite in giardino; da me vengono prese d’assalto e quasi uccise dal ragnetto rosso, che combatto con bagnature delle foglie due volte al giorno, finché regredisce (di per sé sarebbero piante che amano il secco, ma l’ama pure il ragnetto!)
Già ho intessuto le lodi delle giuliette – che di solito chiamo semplicemente “campanelle”, anche se il termine può riferirsi a centinaia di fiori molto diversi. Devo dire che si sono acclimatate molto bene e hanno fiorito con estrema generosità. Ho perduto solo una o due piante per disseccamento improvviso (dovuto chissà se a Fusarium o Verticillium). Mi è dispiaciuto molto, perché è successo poco prima della fioritura, dopo che la trepidazione e l’attesa erano montate per settimane… Sono sempre sorprendenti, le biennali: resistono praticamente senza fare una piega all’inverno e in primavera sono un’esplosione di vigore. Occorre, tuttavia, che nell’estate-autunno pregressi siano riuscite ad accumulare le necessarie energie, pena la mancata fioritura. Questione di tempismo e, come sempre, di fortuna.
C’è da chiedersi perché io non ne abbia più piante, visto che sono così belle. La risposta è presto data: dalla semina alla fioritura possono intercorrere svariate calamità. Intanto, i semini sono minutissimi e difficili da gestire; la semina avviene quando fa molto caldo, sicché basta sbagliare posizione o dimenticare un turno di innaffiatura ed è sùbito strage. In fase di ripicchettamento e trapianto qualche pianta va persa. Non mancano lumache e chiocciole appena dopo il trapianto, specie se l’autunno è (com’è di norma) umido e piovoso. Qualche pianta non attecchisce. Qualcuna non ha tempo di accestire prima dell’inverno. Infine, quelle rimaste devono ancora sopravvivere a funghi e insetti. Non che le giuliette siano particolarmente sensibili: tutt’altro. Eppure, mi sorprendo sempre di quante piante si perdano per strada… Mi riprometto, quindi, per la stagione prossima, di seminare più volte e con cura, all’ombra, e di trapiantare entro metà settembre, in posizione ben soleggiata. Mi faccio anche l’appunto mentale di provare a prevenire i funghi del terreno con un buon mix di micorrize. Speriamo bene…
L’ho già sbandierato ai quattro venti: adoro le biennali. I garofani(ni) dei poeti sono una delle prime piante che ho coltivato come piace a me, ovvero da seme. La mia nonna ne aveva un’aiuola e li usava in maggio per crearne mazzi per il cimitero. I suoi si riseminavano da sé. Li chiama(va) “garofanetti cinesi”, anche se Dianthus chinensis è – in realtà – altra cosa; in inglese sono i sweet williams (o Williams?).
Li ho coltivati tante volte. Non sono affatto difficili: semina estiva, trapianto appena hanno 4-6 foglie vere, posizione soleggiata, terreno un po’ calcareo. Fioriscono il maggio successivo (anche già da aprile, in effetti). Sono profumati e sfoggiano tinte unite o variegature meravigliose. Patologie? Solo la ruggine, se piantati in ombra. A volte le foglie vengono un po’ strinate dal sole cocente, ma niente di irrimediabile. Ci sono vari insetti che pungono o sbocconcellano i miei, senza effetti esiziali, però, sicché non li tratto (afidi, cimici, cavallette…).
Come potrei non amare le giuliette (Campanula medium)? Sono biennali da giardino della nonna, volendo ottimi fiori da taglio. Le si semina d’estate, in posizione riparata. I semini sono molto piccoli. Poi si ripicchettano magari in vasettini singoli (per i bravi, io quest’estate sono stato cialtrone) e appena fa un po’ più fresco, a inizio settembre, si piantano nella sede definitiva, al sole. Amano il terreno un po’ calcareo. Devono avere il tempo di accestire per bene prima dei geli, altrimenti non hanno energie sufficienti la primavera successiva per fiorire. Non mi risulta che si ammalino: a me è successo solo con qualche pianta che all’improvviso è imbrunita e collassata (penso il responsabile sia qualche crittogama risalita dalla radici: colpa del compost di mamma!). Viva le giuliette, semplici o doppie!
Ho una vera ossessione per le biennali (e altre annuali o perenni trattate come tali). Sin da quando seminavo e trapiantavo i garofanini dei poeti d’estate nel giardino dei miei, da bambino e adolescente. La passione si perpetua. I motivi sono fondamentalmente due: in primis si seminano in un periodo lavorativamente tranquillo (d’estate), con tutto il tempo di accudirle come si deve, in secundis sono tra le piante che meglio educano il giardiniere a esercitare a una delle virtù che più lo caratterizzano: la pazienza, visto che occorre aspettare che sia passato l’inverno per vederle fiorire.
Col termine “violacciocche” si designano due specie, in realtà: Matthiola incana e Cheiranthus cheiri (syn. Erysimum cheiri). Si somigliano, ma le prime hanno tipicamente tinte romantiche dal bianco al viola intenso (sono le stocks dei vecchi giardini inglesi), le seconde colori sgargianti e sfacciati dal giallo al rosso mattone. Sono entrambe brassicacee (o crucifere): come i cavoli, sono forti consumatrici di sostanze nutritive, e come i cavoli possono essere preda di cavolaie e altre pieridi. Sono calcofile, sicché mi piace mescolare al terreno in cui le metto a dimora un po’ di cenere di stufa (che andrebbe setacciata per eliminare i carboni, ma il mio spartano armamentario da giardiniere non comprende setacci, per ora…).
I semi delle violacciocche delle foto di oggi recavano sulla busta la dicitura “violacciocche di Nizza”. Le piantine sopravvissute alla calura estiva, al trapianto, all’inverno, a un’insidiosa e ostinata malattia fungina (credo si sia trattato di Peronospora matthiolae) sfoggiano fiori vinaccia e magenta. In teoria dovevano essere di vari colori, ma l’esito è stato questo: le due mattiole in vaso sono uscite magenta, le otto-dieci piantumate in un’aiuola sono risultate vinaccia. Meglio così: effetto più compatto e meno volgare. La natura a volte crea un effetto estetico più equilibrato di quello cui mira il giardiniere.
Mi viene in mente, a proposito, che la volgarità è uno dei grandi rischi dell’arte orticola (si dovrebbe dire così, giacché hortus è l’orto-giardino, come il garden, mentre molti adottano il nuovo conio “giardinicolo/giardiniero”, che a me non piace).
Dicevo: la volgarità, da cui non mi proclamo esente (come non sono esente in giardino da ingenuità, negligenza, leziosità, barocchismo, autoreferenzialità), è uno dei grandi rischi orticoli. Credo che evitare – per quanto possibile – il colore rosso possa aiutare, specialmente in un giardino di ridotte dimensioni. Come aiuta astenersi dal conformismo e dalla moda, scegliendo in base al gusto e non al mercato.