Come spesso succede, il mio piccolo mondo verde è scomposto e caotico. Non pioveva da tempo e oggi, finalmente, è piovuto. Ne approfitto per pubblicare qualche foto dei giorni scorsi.
Sul balcone fioriscono le violacciocche e i tulipani; si preparano a fiorire Convolvulus cneorum e le mie adorate e altrove decantate giuliette. Al posto delle ipomee, stremate dal ragnetto rosso gli scorsi anni, ho deciso di addossare a una grata in legno delle dipladenie bianche e rosa, ancorché a malincuore per il loro successo commerciale che me le rende un po’ sospette.
Il prato misto spontaneo è anche questa primavera un arazzo dalla freschezza naïf, tuttora in fase di metamorfosi perché l’ombrìa della magnolia (abbattuta a gennaio) è sostituita dal solatìo, ora mite ma che si farà impietoso d’estate… Prevalgono i gialli del tarassaco e i bianchi rosati delle pratoline, ma a cercare bene ci sono anche gli azzurri delle veroniche, i rosa più intensi del trifoglio, i blu delle ultime viole. I vicini hanno già rasato il loro prato impeccabile almeno due volte, pelandolo a vivo con decine di viavai del tosaerba per pochi metri quadri. Guardano alla mia giungla con disappunto, un po’ come i vicini di cui parla Michael Pollan in Second Nature, che attentano ai valori comuni della gentry americana colla loro negligenza nella cura del prato, vero totem della middle class e dei suburbs. Non sospettano che ci siano altri modi di concepire il giardino, meno plastificati.
Le malattie crittogamiche sono ancora sotto controllo, ma percepisco come siano lì lì per esplodere non appena le temperature si alzino e l’umidità si faccia insidiosa. Sto passando e ripassando macerato di equiseto, a scopo preventivo, nella speranza che riduca la necessità di passare lo zolfo ramato o il verderame. Quanto ai parassiti, ho deciso di usare molto di più la semplice lotta manuale, quest’anno, limitando l’uso di prodotti, per naturali che siano, come il legno quassio e l’olio di neem, che di solito utilizzo se ci sono attacchi massicci. Le cavallette sono già in piena proliferazione: si sollevano dal prato (autentica grillaia!) quando ci si passeggia sopra, e si beano al sole sui listelli di legno secco del balcone. Ci sono poi le cavallette tipiche solo dei colli veneti, Barbitistes vicetinus, che anche quest’anno sono già presenti, ancora piccolissime, nelle due versioni verde e melanica. Ne schiaccio tra le dita quante più posso, con sadico piacere misto a disgusto. Ne capto la presenza prima ancora di individuarle grazie ai trafori delle loro rosicchiature su fiori e foglie.
Nella serretta le dalie, che ho ritirato con il loro vaso e protetto con tessuto-non tessuto, stanno germogliando. Che sollievo! Temevo che questa prassi eterodossa riuscisse loro fatale (non avevo reale contezza di quale temperatura raggiungesse la serretta, d’inverno). Non c’era comunque il tempo, a novembre, di estrarle, disinfettarle, riporle, controllando poi che non seccassero né ammuffissero… Sono invece andate le calle bianche (Zantedeschia aethiopica), altra presenza démodé del mio giardino, stroncate dal gran freddo di quest’inverno. Non erano tra le mie presenze predilette, per quelle loro spate candide, senza profumo, di un’eleganza un po’ algida e frigida.
Nei prossimi giorni non avrò molto tempo e la pioggia scatenerà la crescita delle malerbe. Purtroppo avere un giardino progettato in modo scriteriato e caotico significa anche non riuscire bene ad accedere a tutte le zone per il diserbo accurato. Ci si può provare, con evoluzioni e torsioni circensi, ma l’esito è incerto e il rischio di pestare le plantule di fiori nate da sé qua e là (specialmente le speronelle) è molto alto. Sarebbe un delitto! Eppure, un po’ di largo occorre farlo…