Andando nel sole che abbaglia
Lascia sgomenti la canicola. D’estate qui la pioggia latita a lungo. L’afa ti prende alla gola, toglie il fiato, opprime. Caldo e umido. Le piante soffrono per il secco, si ammalano per l’umidità. Il sole impietoso strina le foglie degli alberi, gli steli delle anemoni giapponesi si lessano e piegano, i garofani dei poeti già trapiantati accartocciano le foglie a proteggersi. Il terreno che mi ritrovo, difficile da ammendare se non con sforzi titanici e su tempi biblici, forma crepe larghe e profonde, si cementa e spacca. Il prato selvatico è ingiallito e polveroso. Nell’aria si spande l’aroma speziato delle rose. Le ipomee sono floride al mattino, dopo son tutte un intrico di foglie vizze e flosce. Salvo le piante con foglie coriacee o cerose, quasi niente ha un bell’aspetto verde brillante: c’è il verde stinto e slavato, c’è il giallo venato di marrone, c’è il verde marmorizzato di giallo per le punture inferte da aracnidi e insetti, c’è il verde a chiazze bianche pulverulente per l’oidio. Tutto anela alla pioggia. La terra riarsa non aspetta che questo per una breve ma intensa seconda primavera – a second spring of beauty and youth. E il giardiniere, empatico, scruta il cielo terso e impetra pietà.
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