And then some day you’ll pass my way …
…
See gold and crimson, bell and star,
And catch my garden’s soul, and say:
‘How sweet these cottage gardens are!’
(Edith Nesbit)
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See gold and crimson, bell and star,
And catch my garden’s soul, and say:
‘How sweet these cottage gardens are!’
(Edith Nesbit)
… of ivory on which I work with so fine a brush, as produces little effect after much labour. Non intendo nemmeno lontanamente paragonarmi alla geniale e malefica romanziera d’Albione, creatrice di partite a scacchi orchestrate come eleganti quadrighe, di lavori di bulino e cesello da labor limae maniacale. Né posso dire di aver profuso fatiche improbe nel mio pezzettino di verde. Insomma: mi veniva in mente quella frase per l’idea del “piccolo ma prezioso” che evoca. Le analogie finiscono lì.
Sono piuttosto orgoglioso dell’effetto globale del mio quadratino di verde, questa primavera. Soprattutto perché è il frutto felice del caso: non l’ho progettato a tavolino, anche perché le mie capacità progettuali sono scarse e sostenute da mezzi scarsi.
I protagonisti di questa sinfonia colorata sono heuchere, garofanini dei poeti, fiordalisi, violacciocche, papaveri della California, papaveri dei campi, acetoselle (Oxalis articulata). In una delle foto si nota anche una teoria di soffioni al vento, quel che rimane di un gruppo foltissimo di tarassachi. Sono così contento di non averli estirpati, come qualcuno mi suggeriva. Ho avuto il tempo di mangiarne, di goderne il giallo sfavillante, di osservarne con languore i soffioni che si spogliano a ogni bava – simbolo magari trito ma sempre struggente della fugace transienza di ogni cosa. Nothing gold can stay.
Come si è creata questa confusione fiorita? Qualche aiuola, formale, l’ho piantumata tra fine estate e inizio autunno della stagione scorsa (quella poligonale dei garofanini e quella rettangolare delle violacciocche); altre, informali, si sono create da sé con quel che rimaneva di un prato fiorito misto che avevo seminato e visto fiorire per due-tre settimane. Le piante più caparbie si sono riseminate da sé, anche se – a dirla tutta – le avevo un po’ aiutate senza molta convinzione con qualche lancio a spaglio qua e là. E poi ci sono anche le essenze portate dal vento.
Confesso che quando ho letto (e riletto) I giardini venuti dal vento, non ho creduto davvero possibile emulare la demiurga autrice di quel libro e di quei meravigliosi giardini: non credevo fosse agevole riconoscere piante nate da semi portati dal vento e salvarle dal diserbo o comunque permettere loro di espandersi e colonizzare. Invece devo dire che non è difficile. Specie ora che sono circondato da piccoli giardini, alcuni a livello più alto del nostro, sicché l’azione del vento è facilitata dalla gravità.
Tra i doni ricevuti, e accolti con trepidazione e riconoscenza, ci sono in giardino e nei vasi diverse margheritone (Leucanthemum maximum), alcune malvarose, e ancora nemofile, petunie, bocche di leone. Il segreto, per chi difetta – come me – di approfondite cognizioni botaniche, è avere un appezzamento in cui crescono poche, tipiche, erbacce: in questo modo è facile, per contrasto, riconoscere piante “diverse” e, nel dubbio, lasciarle crescere con la speranza che siano fiori. D’accordo, la contrapposizione erbacce versus fiori da giardino si può dare per superata, ma penso di aver chiarito che cosa intendo.