And then some day you’ll pass my way …
…
See gold and crimson, bell and star,
And catch my garden’s soul, and say:
‘How sweet these cottage gardens are!’
(Edith Nesbit)
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See gold and crimson, bell and star,
And catch my garden’s soul, and say:
‘How sweet these cottage gardens are!’
(Edith Nesbit)
Tlaspi o tlaspo, nome che indica anche altre crucifere, sia in italiano che in greco. Questo è il tlaspi d’inverno, piccolo arbusto spontaneo in certe zone d’Italia, su rupi assolate e sassose, ma coltivato da tempo immemore nei giardini della nonna, in vaso, per esibirne la fioritura in pieno inverno. Fiorisce, infatti, tra novembre e aprile. Mi piace l’asimmetria dei petali, due dei quali si allungano a linguetta verso l’esterno. Botanicamente, il tlaspi d’inverno è un tipo d’iberide: Iberis semperflorens. Il genere comprende anche Iberis umbellata, che fiorisce in primavera-estate e si risemina da sé con facilità; Iberis gibraltarica, endemica nella zona evocata dal nome specifico; Iberis sempervirens, a volte confusa con la semperflorens: la prima forma un cuscinetto sempreverde che reca in primavera candide infiorescenze che le hanno guadagnato l’appellativo di “fior di neve”, la seconda si distingue, appunto, per l’andare a fiore in un periodo un po’ sguarnito e disadorno. Il tlaspi d’inverno predilige un sostrato calcareo e non teme la siccità. Si riproduce senza fallo (o quasi) per taleaggio. Non è esente da pecche: tende col tempo ad assumere un aspetto scarmigliato e sparuto, per cui conviene rinnovare le piante con regolarità.
Da sempre associo il mese di luglio alla prorompente esplosione in fiore dei lillà delle Indie (Lagerstroemia indica), che dalle mie parti adornano le strade a mo’ di alberature e incorniciano i giardinetti privati come soldatini in riga sull’attenti. Non mi piace molto il loro portamento da manichini, ma hanno una fioritura così spettacolare che sono pronto a perdonarglielo. D’altronde, non è colpa loro: siamo di fronte a uno strascico degli anni Sessanta-Settanta, quando “alberello” era sinonimo di eleganza, come per le rose. Colpa dell’uomo, come sempre.
Il mio giardino non faceva eccezione, e lungo il confine esibiva il suo bravo lillà delle Indie, ad alberello, tutto rigido come un bastone; per fortuna era solingo, senza compagni d’arme. L’anno scorso l’ho segato alla base. I polloni, che già spuntavano esuberanti intorno al tronco, quest’anno sono alti più di un metro e mezzo. Ora sono in fiore. Sono molto soddisfatto: da un alberello ingessato, incongruo nel mio giardino selvaggio e would-be spontaneo, ho ottenuto uno splendido arbusto. In futuro mi ripropongo di valorizzarne quattro cinque branche principali, sfrondando l’affollarsi dei polloni, in modo che assuma un portamento un po’ arrotondato e poco assurgente. Tra l’altro adesso che non c’è più la magnolia a insidiarlo con la sua ombra non ha nemmeno una traccia di mal bianco. Bene.
Altra pianta immarcescibile e vigorosa che associo alla calura di mezza estate è l’oleandro, coi suoi fiori dall’odore venefico di mandorla amara. Che piante meravigliose. Chissà perché una volta le si coltivava in vaso, per ricoverarle o proteggerle in inverno; ora siamo più consapevoli della loro sostanziale rusticità, e del fatto che solo in piena terra possono svilupparsi al meglio.
Ecco qualche foto rubata in giardino stamane, prima di lasciarlo a cuocere sotto il sole arroventato.
Le gaure non hanno bisogno di commenti; viene solo da chiedersi come si sia potuti vivere senza! Mi sto forse omologando: ormai le gaure sono ovunque, persino nei vasi che decorano i ponti in città. Per me, però, sanno ancora di novità ed è lontano il giorno in cui mi verranno a noia, se mai lo faranno.
Qui sotto, in sequenza, un sedum da talea con le foglie un po’ mangiucchiate (le lumache scalano persino i vasi!) e ingiallite (devo aver preso troppo sul serio le indicazioni colturali “terreno povero e ben drenato”: temo si tratti di carenza di azoto…); un giglio (profumo inebriante e celestiale); un’ipomea nata lungo la recinzione da semi della stagione avanti; una gaillardia nata chissà come e chissà perché.
La mia gaura prediletta è questa, ‘Alba’ o alba: è ben ramificata e davvero splendida. Mi ripropongo di averne altre piante: proverò a farne talee, sperando di avere tempo quando verrà il momento opportuno (ma ho i miei timori…).
L’effetto – mi ripeto – è quello di farfalle di carta velina. I fiori rimangono ben aperti la mattina, per poi chiudersi quando il sole picchia con forza massima, prima e dopo mezzogiorno.
Si può fare giardinaggio con niente e il risultato non è giardinaggio da niente. Lo illustra benissimo Umberto Pasti in Giardini e no. Come non essere d’accordo? C’è più giardinaggio in una rosa che spunta da un barattolo da pelati sul davanzale di una catapecchia che in un giardino pettinato e patinato. E ce n’è più nelle aiuole del benzinaio che tutte le sere innaffia con costanza le sue annuali che nel giardino ben rasato uscito dalla mente dell’archistar di grido. Magari gli esempi non saranno stati quelli, la memoria potrebbe tradirmi. Ma il senso era quello.
Sedum palmeri incarna bene questo spirito minimal, che può essere frutto di necessità o anche di scelta (potrebbe anche diventare una posa, ma solo al limite: una cosa da veri dandy alla rovescia). Se ne pianta un pezzetto in un vaso, senza concimare, lo si lascia lì indisturbato al sole e alle intemperie quattro stagioni su quattro: in breve il contenitore si riempie di umili rosette di foglie verde pallido, che in primavera elargiscono mazzetti di fiori gialli stellati. Non serve innaffiarlo, non serve proteggerlo, non serve concimarlo, non serve potarlo. Non si ammala, non vuole niente.
Un vaso di Sedum palmeri ce lo si scorda facilmente, come fa il maestro col bravo scolaro o il genitore col figlio obbediente. Sono le creature capricciose, difficili, ribelli ad attirare le nostre attenzioni, anche in giardino. Dei sedum, chi se ne cura? Fan tutto da sé. Poi, un giorno, per caso l’occhio del giardiniere cade sui loro fiori semplici, onesti. Ci si pente allora di tutta l’indifferenza, della fiduciosa e incolpevole negligenza: ci si ritrova in dovere di provare riconoscenza per questa pianta sobria e gentile, non bella né brutta: solo priva di lusinga.
Guardatevi attorno: i sedum verde pallido coi loro fiorellini color canarino sono ovunque, anche nel balconcino più negletto. Probabilmente passati di mano in mano: il taleaggio è quasi infallibile, con loro. Si stupisce di quanto siano diffusi in Italia persino l’americano autore di The Plant Lover’s Guide to Sedums.
Anelo a volte a un giardinaggio del niente, fatto di piante così, che non vogliono nulla o che appaiono poco. Mi piace sentirmi appagato di poco, di niente: anche solo il silenzio, l’ondeggiare delle foglie nel vento, la visita fugace di una farfalla. Sento, allora, che non voglio di più, non mi serve di più. Sono momenti di pace, in cui si tace il desiderio di altro, di molto, di troppo. Momenti di semplicità assurta a dimensione perfetta dell’anima.
Anche una piantina poco o punto appariscente può operare il miracolo; occorre sapersi fermare, saper vedere. Allora sparirà l’ansia di dover creare, in giardino, lo spettacolo perfetto per lo spettatore comune, e basterà un piccolo dettaglio ad appagare il bisogno di bellezza e poesia che sente il giardiniere. Bisogna cercare bene, a volte la bellezza non è ben in vista: si sottrae.