And then some day you’ll pass my way …
…
See gold and crimson, bell and star,
And catch my garden’s soul, and say:
‘How sweet these cottage gardens are!’
(Edith Nesbit)
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See gold and crimson, bell and star,
And catch my garden’s soul, and say:
‘How sweet these cottage gardens are!’
(Edith Nesbit)
Potrei continuare con suggestive riprese di ragnatele grondanti goccioline d’umidità o foto poetiche coi ricami della galaverna. Invece, fino a primavera 2017 non pubblicherò proprio niente. L’inverno incombe con tutta la sua tetraggine. Fino a novembre ci sarà tempo per ricoverare le piante freddolose (ne ho poche), ma già so che non farò grandi lavori: ritirerò i due enormi vasi con le dalie rosa e la schefflera ereditata. Lascerò invece i gladioli in terra, perché oltre a non avere l’energia per espiantarli, qui il terreno è già zuppo e andare a pestare il giardino non è il massimo. La mia voglia di stare fuori diminuisce con lo scemare delle ore di luce (abito in collina e il fenomeno è più accentuato: anche in giornate soleggiate il sole si vede solo dalle undici alle tredici, in pieno inverno, per il resto è coperto nella sua bassa parabola dalla collina prospiciente). Riprenderò con rinnovato vigore a febbraio 2017.
Dalia. Purtroppo, è una delle poche foto decenti che posso pubblicare. Anzi, una delle poche infiorescenze decenti. Temo che le mie dalie abbiano sofferto per tutta la stagione di un fenomeno detto fasciazione: i petali erano piccoli o malformati, a volte verdini anziché rosa. Non ne so bene la ragione, forse i soliti ragnetti che qui sono molto aggressivi e prolifici.
Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. […] Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è róso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido troppo secco.
Come dar torto al Grande Poeta? Il quale era anche un fine naturalista, con interessi a volte molto settoriali, che gli venivano dalla cultura illuminista.
Ovviamente, Leopardi sta cercando di dimostrare il suo assunto che la Natura è matrigna e che il mondo è sofferenza. Ma il quadro fosco trova d’accordo il giardiniere, che alterna momenti di giubilo a momenti di frustrazione per le infinite piaghe che affliggono il suo regno, grande o piccolo.
Hanno ben dire i giardinieri naturali che un giardino senza veleni favorisce la biodiversità e raggiunge un equilibrio perfetto, quasi piccolo ecosistema. La realtà è che, come osserva Michael Pollan in Second Nature, un giardino è pur sempre una finzione, che accosta specie autoctone con altre esotiche, specie spontanee con ibridi orticoli, piante che stanno benissimo lì dove le si colloca e altre che vi stanno strette.
Un giardino è, come dimostra quella straordinaria poetessa e sacerdotessa del verde che è Maria Gabriella Buccioli, una nostra creatura: un “figlio verde” lo definisce. Ha bisogno di soccorso, cure, pianificazione, amore. E riuscire a tenerlo in salute e rigoglio senza trattamenti non è facilissimo. Credo sia più semplice per chi ha grandi appezzamenti, in cui si può creare un equilibrio su scala media, mentre in un quadratino confinante con tanti altri giardinetti e col bosco selvaggio non è cosa agevole.
Senza contare che la globalizzazione porta con sé un gran turbinio di parassiti, che si trovano sbalestrati là dove non hanno antagonisti naturali e possono pullulare e fare scempio indisturbati. Ci sono esempi a non finire nelle cronache recenti. Il bruco americano, il coleottero giapponese, la piralide del bosso, la metcalfa sono solo alcuni esempi.
Le foto sopra sono delle mia aiuoletta di rose ‘Marie Pavie’ (o Pavié?) e ‘Botticelli’, aggredite nell’arco di due giorni da un’allegra brigata di curculionidi, peraltro non tra i nemici più comuni delle rose. Questi simpatici insettini dalla verde livrea stavano per defogliare completamente le mie piantine, su cui lasciavano solo le loro deiezioni nerastre. Sono creature furbette, perché appena le si tocca si fingono morte. Ecco che – per fortuna – la cattura manuale è la forma di lotta più semplice ed efficace. Io l’ho fatto con un barattolo di saponata bollente, in cui immolavo i poveri insetti – vittime della mia gelosia (giù le mandibole dalle rose!). Ho cercato di applicarmi e di entrare nel mood raccomandato dalla biodinamica antroposofica, cercando di concepire la morte dei malcapitati come sacrificio per il giardino, con un senso di riconoscenza e pietà. Ma la furia omicida del giardiniere efficientista temo sia prevalsa.
… tu tien d’ogni beltà le palme prime,/sovra il vulgo de’ fior Donna sublime./Quasi in bel trono Imperatrice altera.
Una volta le rose non mi piacevano. Mi sembravano difficili, capricciose, malaticce. Tutte quelle spine, la macchia nera fedele compagna, le corolle sfiorite nel volgere di un soffio. Forse era un po’ la storia della volpe e dell’uva acerba.
Alla fine le resistenze hanno ceduto e ora non riuscirei quasi a concepire giardino senza rose o giardiniere senza graffi.